All'ingresso del carrozzone il bambino si fermò; più sorpreso che impaurito, quasi disturbato dall'evidenza. Contrariamente alla volta precedente, nella confusione totale del luogo spiccava la figura di un uomo. I baffetti neri ben curati, i capelli ricci dello stesso colore, la carnagione chiara.... non era propriamente un uomo: poteva avere vent'anni o poco più. Ma agli occhi dei bambini, oltre una certa soglia, gli esseri umani sono tutti "grandi" e quindi appartenenti ad un genere diverso. Un grande poteva dare ordini che era impossibile ignorare oppure picchiare senza motivo, solo perché più forte. Istintivamente il bambino si fermò in attesa degli eventi; fossero ordini o botte lui doveva fermarsi ed aspettare. Il ragazzo invece aveva appena rilevato la sua presenza con un rapidissimo sguardo di sottecchi. Le sue mani erano immerse nell'incredibile accozzaglia di oggetti ammassati lungo quello che sembrava un bancone. C'erano casse piene dappertutto, stipate alla rinfusa come se non esistesse un ordine per distinguere le cose; cavi, scatole, attrezzi da lavoro, oggetti sconosciuti... tutto conviveva nella polvere e nella confusione. Ma soprattutto c'era l'oggetto del desiderio, il motivo che aveva spinto il bimbo alla seconda coraggiosa intrusione in quel territorio sconosciuto. La luce filtrava a fatica dalle rade fessure e attraversava il carrozzone come fili luminosi; la polvere fluttuava intorno a quelle spade di luce come comete statiche, troppo pigre per muoversi nella calura di un luglio milanese. C'era un senso di attesa in quelle scie, un tempo rallentato, quasi fermo....




Milano aveva il sapore dolce della campagna che cede il passo piano piano alla città. Ancora sopravvivevano vecchi ruderi di cascine che già i grattacieli erano incombenti. Era un quartiere, il nostro, in bilico tra un presente di periferia malfamata e un futuro che si preannunciava grandioso. Questo futuro aveva un nome misterioso che a volte ci metteva la paura addosso e a volte invece ci faceva sentire predestinati ad una favola felice. Il nostro quartiere sgangherato sarebbe diventato il nuovo Centro Direzionale di Milano. Sembrava una promessa ma nessuno sapeva esattamente cosa sarebbe diventato il nostro mondo. Sarebbero passati molti anni prima dell'effettivo cambiamento ma era tangibile la paura dei nostri genitori che attendevano con timore l'invasione di banche, uffici e servizi pubblici che dovevano spazzare via le vecchie puttane e i bar fumosi e malfamati. Era un mondo in equilibrio quello che ci circondava, ognuno aveva il suo ruolo e non c'erano invasioni di campo. Le puttane popolavano i marciapiedi delle nostre case e la notte i bar si riempivano di sfaccendati e di ladruncoli. Ma i due mondi non entravano in conflitto e se qualcuno si permetteva di fare un passo fuori dal proprio territorio veniva fermato e dissuaso. Era una legge non scritta che veniva rispettata. Non sapevamo se quell'equilibrio sarebbe rimasto quando ai ladri e alle puttane sarebbero subentrati gli impiegati, i manager, gli yuppies... 
Noi bambini godevamo dell'immenso terrapieno che lo spostamento della stazione ci aveva regalato. Era un luogo magico di avventure che vivevamo intensamente ritrovandolo poi nei libri di Mark Twain che prendevamo in prestito nella biblioteca di classe. Aveva una vegetazione fitta e angoli misteriosi e inesplorati; c'erano tralci con uva selvatica e felci e alberi che crescevano liberi così come liberi eravamo noi di immaginare guerre, atti di eroismo, conflitti immaginari che nulla avevano a che fare con la violenza. Eravamo bande di pirati, soldati coraggiosi; dovevamo cacciare la bestia pericolosa che qualcuno aveva visto con certezza tra la vegetazione o liberare il compagno prigioniero dei nemici. Ma guai a trovarsi soli perché quel luogo era spaventoso se affrontato senza il gruppo. Nessuno si avventurava per i sentieri che si addentravano nel folto della vegetazione se non aveva attorno a sé la banda. Una volta mi ritrovai improvvisamente la strada sbarrata da una ragnatela. Occupava tutto il sentiero e proprio nel centro c'era un ragno: nero, enorme, peloso... almeno così sembrava ai miei occhi di bambino. Terrorizzato scappai via e ritrovato il gruppo partimmo alla ricerca del mostro per ucciderlo tutti insieme. Spesso a farne le spese erano le povere lucertole; volevamo a tutti costi verificare se era vero che la coda sarebbe ricresciuta. Io ero più contento quando ci lanciavamo di corsa tra le felci, l'urlo di guerra gridato a squarciagola. Immaginavamo il terrore del povero nemico già segnato dal destino e ci sentivamo forti, grandi, immensi. La sera si tornava a casa senza che nessun quadrante di orologio ci avvisasse. Era l'istinto che ci diceva che era l'ora di tornare. Era la fame che arrivava dopo una giornata intera passata al sole nel nostro mondo. Era la libertà che oggi non esiste più, la libertà di vivere fuori di casa senza fermarsi mai, senza che qualcuno dovesse preoccuparsi per questo. 

C'era di tutto nel gruppo di bambini che andava a giocare sul terrapieno delle ex Varesine. C'erano i gemelli Lozupone, figli dell'ortolano che con il suo dialetto pugliese ci faceva quasi paura. Urlava sempre quando andavamo a chiamare i due bambini ma non riuscivamo mai a capire una parola di quello che diceva e credo che anche gli stessi gemelli non capissero. Erano tempi in cui i soldi dovevano essere contati e usati con una grande parsimonia se si voleva avere tutti i giorni qualcosa da mangiare. Pensavo con invidia che i gemelli Lozupone potessero invece mangiare tutte le banane che volevano; era un frutto che mi piaceva da morire ma raramente mia madre riusciva ad acquistarne. Quando passavo davanti al negozio, quei frutti gialli mi facevano venire l'acquolina in bocca. Un giorno chiesi ad uno dei gemelli se a loro era concesso di mangiare banane tutti i giorni e mi sentii rispondere che il padre li avrebbe uccisi se solo ci avessero provato. C'erano poi i fratelli Gariglione. Uno dei due aveva un occhio di vetro e mi rendo conto ora che nessuno di noi aveva mai chiesto che cosa gli era successo. Eravamo solo curiosi di vedere la differenza tra l'occhio sano e quello di vetro. Giuseppe era grasso e portava anche gli occhiali mentre suo fratello era magro e asciutto. Giovanni sapeva che suo fratello doveva essere protetto e non lo perdeva mai di vista rimanendo sempre un passo indietro a controllare che tutto fosse a posto. Il sabato pomeriggio andavamo a giocare a calcio in un parcheggio che si liberava dalle auto e ci lasciava spazio per partite interminabili dove stabilire se il tiro era alto o in rete era impossibile e i falli causavano discussioni interminabili. Quel parcheggio era chiamato il "Campo Gariglione" perché i due fratelli sostenevano fosse di proprietà di un loro zio e quindi potevamo giocarci solo grazie a loro. Raramente finivamo a fare a botte, non eravamo un gruppo di violenti. Ma le botte erano comunque parte integrante del nostro mondo e prenderle o darle dipendeva dal caso, dalla giornata, da chi incontravi. Uno da cui le ho prese anche quando eravamo un po' più grandi era Pinna, con la sua faccia da bambino per bene, sempre tirato a lucido con i suoi pantaloncini puliti e le sue ginocchia senza sbucciature. Non aveva il padre ma nessuno si era mai preoccupato di sapere se era morto o che cosa era successo. Come per l'occhio di vetro di Gariglione, non c'era interesse ad approfondire la notizia. Lui era bravo a giocare a calcio ed era bravo anche a scuola e lo sapeva e un po' ci disprezzava. Purtroppo era bravo anche a fare a botte. Io gli invidiavo la capacità di rimanere sempre pulito nonostante si facessero le stesse cose, si giocasse con la stessa palla e si mettessero i nostri cappotti per terra come pali della porta. Io tornavo a casa irriconoscibile sotto uno strato di sporcizia che era la disperazione di mia madre, le ginocchia sanguinanti, i vestiti strappati e il sangue che mi usciva anche dal naso. Pinna sembrava invece uscire da un te con le comari della parrocchia: pulito come un pesce prima di finire nella pentola. C'erano poi Pezzotti e Carannante, c'erano quelli più grandi che ogni tanto ci picchiavano perché dovevano restituire le botte che a loro volta prendevano. C'era Franceschini il cui fratello finì in prigione per una rapina di cui parlarono tutti i giornali e c'era De Simone che era il figlio del proprietario dell'Hotel dove le puttane esercitavano la loro professione. E molte altre facce, altri nomi, altri bambini di cui ho perso la memoria ma che dividevano con noi una città che ci apparteneva, era la nostra e non di una moltitudine immensa di automobili.