Entrai nello stanzone senza curarmi del rumore. Era presto e sicuramente i bambini non dormivano anche se dovevano comunque fare silenzio. Qualcuno chiacchierava sottovoce e solo quando scoppiavano risate a malapena soffocate i disobbedienti venivano scoperti e redarguiti. Il metodo era lasciarli in pace se non esageravano: via via si addormentavano e presto il silenzio sarebbe stato interrotto solo dai respiri leggeri o da qualcuno che parlava nel sonno. Elena era nel suo box protetto dalle tende bianche. La luce sul comodino donava una sfumatura ambrata che si estendeva per qualche metro invadendo i primi letti. Tutti avevano l'accortezza di mettere i bambini più tranquilli nei letti vicino al box. Le assistenti potevano così garantirsi il tempo per un libro, una lettera da scrivere... Elena aveva capelli del colore del vino nuovo e occhi che riempivano un viso irregolare. Era minuta; sembrava sempre sul punto di soccombere quando il vento si alzava o quando i bambini le correvano intorno. Dal suo sguardo però capivi che c'era una forza non comune che muoveva le sue braccia: c'era un profondità che intuivi e che ti faceva abbassare gli occhi quando ti guardava. Lei non li abbassava mai e sorrideva, forse con un filo di tristezza, ma sorrideva.
Era il mese di settembre, l'ultimo turno alla Colonia per quell'anno.
Qualche giorno prima gli autobus avevano scaricato un centinaio di bambini con la faccia spaurita e gli occhi ancora rossi di pianto. Erano stati suddivisi in squadre ed erano in fila silenziosi e attenti mentre gli inservienti scaricavano i bagagli e li ammassavano in un angolo dell'immenso cortile.
La Signora Bianca, la direttrice, avrebbe tenuto il solito discorso di benvenuto, lo stesso che avevo sentito per quattro volte e che mi accingevo ad ascoltare per la quinta.
Non mi sarei perso nemmeno una parola: quella donna mi piaceva e mi impauriva; era massiccia e dolce, era autoritaria e ironica, era contemporaneamente tutto e il suo contrario. Aveva un piglio nel gestire la Colonia che la rendeva il cuore pulsante di tutta l'organizzazione.
Dovevo a lei l'opportunità di passare sul lago due mesi di vacanza: ero suo ospite nonostante i miei quattordici anni.









Due anni prima avevo colto l'ultima possibilità fornita gratuitamente dal Comune di Milano: passai l'intero mese di luglio divertendomi e dimenticando il travagliato anno scolastico concluso con la bocciatura. Ero arrabbiato perché a scuola non mi avevano accettato nelle poche classi di inglese e io il francese proprio non lo sopportavo. Avevo un gran bisogno di attenzione: il mio corpo si stava modificando e non avevo strumenti per capire che era un passaggio naturale. Erano tutti preoccupati per me. Mi avevano addirittura mandato dallo psicologo: un signore gentile mi aveva chiesto di illustrare la mia famiglia e io avevo disegnato i miei genitori che tenevano per mano due bambini, un maschio e una femmina.
Avevo dunque ucciso due delle mie tre sorelle.
Nel disegno mio padre era un poliziotto e aveva una pistola mentre mia madre sorrideva.
Cercavo di essere sempre al centro dell'attenzione, mi gratificava anche se capivo che i miei genitori erano disorientati e in apprensione. Per costringere i grandi ad occuparsi di me replicavo gli atteggiamenti provocatori e dirompenti di cui avevo notizia. Mi avevano raccontato, per esempio, che in una terza media una ragazza aveva buttato in terra i libri gridando e piangendo esasperata da non so quale problema. Prontamente qualche giorno dopo feci esattamente lo stesso nello stupore generale. Mi capitava spesso di fare a botte e di tornare a casa con il naso sanguinante oppure con gli occhiali rotti. Avevo accessi di rabbia che mi offuscavano la vista. Persino il prete della parrocchia fu coinvolto nell'opera di recupero del bambino dolce e tranquillo che aveva perso il lume della ragione. Durante l'ora di religione avevo infatti difeso strenuamente la mia grande conoscenza dei meccanismi che portavano alla nascita dei bambini. Nella totale ilarità di tutta la classe sostenevo che i bambini venivano colti con gli ortaggi, i cavoli in particolare.
Don Roberto si informò con le mie sorelle scoprendo che effettivamente le mie convinzioni erano il massimo della comunicazione che avevo ricevuto.
Mi diedero quasi clandestinamente un libro che si chiamava "Il diario di Daniele" e freddamente ancorché scientificamente appresi che i cavoli non c'entravano nulla. Mi vergognai tantissimo della mia ignoranza, mi vergognavo tantissimo della mia nuova conoscenza. Mi crescevano i peli sul pube e me li tagliavo perché non volevo che qualcuno vedesse quello che mi stava succedendo. Un disastro insomma.
E alla fine dell'anno scolastico fui ovviamente bocciato.
Consigliarono ai miei genitori la colonia sul lago: il clima era ideale per calmare le esplosioni di rabbia. Il turno di luglio era dedicato agli epilettici. Cosa c'era di meglio per un ragazzino spaventato dal modificarsi del suo corpo che passare un mese con coetanei che improvvisamente rovesciavano gli occhi e cadevano a terra in preda a convulsioni... Un vero toccasana. C'era un bambino che viveva con un piccolo casco che gli proteggeva la testa: le crisi erano violente e cadendo rischiava di ferirsi seriamente. Molti di loro dovevano prendere delle gocce quando la crisi iniziava e tutto il mondo si fermava quando questo accadeva. Era un continuo scandire il tempo con le convulsioni altrui.
Per fortuna le persone che gestivano questa difficile realtà, dalla Signora Bianca fino all'ultima inserviente avevano una sensibilità e una disponibilità veramente fuori dal comune. Anche io, con i miei piccoli problemi, finii per beneficiare della loro umanità. Ero in una "squadra" dove non c'erano bambini con problematiche gravi; Alessandra, la nostra assistente, era severa e pretendeva che rispettassimo le regole senza protestare. Ovviamente la mia situazione era in netto contrasto con le regole. Tendevo ad innervosirmi per ogni piccolo contrattempo e nei primi giorni picchiai metà della mia squadra. Alessandra cercava di tenermi a freno senza isolarmi ma con una fermezza che probabilmente mi salvò da guai peggiori. Riuscii a godere delle passeggiate, delle partite a calcio in un campo vero con le porte di legno e le reti. Eravamo liberi di scorrazzare nel parco della villa che ci ospitava tra enormi cespugli di pungitopo, grandi alberi di castagno e angoli nascosti dove riprovavo le emozioni della mia infanzia. E dimenticavo il mio corpo che cresceva.
Un pomeriggio, la passeggiata ci condusse in un campo pieno di alberi di mele. I frutti erano piccoli e irregolari ma erano gustosi e quando si sparse la voce quasi tutti i bambini si arrampicarono per cogliere le mele e mangiarle. Gli alberi erano trattati con il verderame, un anticrittogamico pericoloso se ingerito; di certo non avevamo lavato le mele prima di mangiarle e nessuno ci aveva fermato. Al nostro ritorno ci fu una grande agitazione: la Signora Bianca si aggirava arrabbiata per la Colonia dando ordini e disposizioni. Fummo riuniti nel cortile e senza mezzi termini ci dissero che avevamo fatto una stupidaggine. Il veleno dei meli poteva essere pericoloso e quindi chiunque avesse mangiato i frutti doveva andare in sala medica e farsi somministrare il siero anti-veleno. Seccamente ci dissero che al primo sintomo di avvelenamento ci avrebbero portato in ospedale e dopo sarebbe scattata la sanzione disciplinare con l'espulsione dalla Colonia. Ovviamente per quelli che ammettevano la colpa non c'era solo il siero anti-veleno: ci sarebbe stata anche una punizione non meglio definita.
Io avevo mangiato una mela ma l'idea di finire in ospedale e poi esiliato a casa non mi sembrava male. Meglio dell'inutile punizione. Avrei avuto l'attenzione di molte persone e i miei sarebbero venuti addirittura da Milano solo per me.
Dunque mi disinteressai dei medici e del siero anti-veleno.
Arrivato il momento di andare a dormire, mi ritrovai da solo nel mio letto nell'immensa camerata. Tutti si erano addormentati e io cominciavo ad avere paura. Aspettavo il mal di pancia, o uno svenimento e l'attesa del malore che sicuramente mi avrebbe preso mi metteva agitazione, mi impediva di dormire. Ad un certo punto la paura fu più forte e mi misi a piangere. Fino a quel momento avevo sfidato tutto e tutti senza la minima paura e quelli che avevano osato opporsi alle mie sfuriate si erano ritrovati a terra travolti dalla rabbia che mi oscurava gli occhi. Alessandra si accorse del mio pianto e mi venne vicino. Era sorpresa o almeno così mi fece credere.
Mi chiese cosa avevo, se il male che sentivo era alla pancia o alla testa. Le dissi che avevo paura e che mi mancava molto la mia mamma; le dissi anche che avevo mangiato una mela e che avrei dovuto prendere il siero. No, non sapevo perché mi ero rifiutato di andare in sala medica quando era il momento, non sapevo mai il perché delle mie azioni. Volevo solo che tutti quanti si accorgessero di me e del dolore che provavo. Il male che mi bruciava dentro mi annebbiava la vista e allora picchiavo il primo che mi capitava a tiro. Ma i grandi mi punivano e non capivano che cosa mi stava succedendo. Il male non passava e io avevo paura. Fu una confessione in piena regola con le lacrime che non riuscivano a fermarsi e i singhiozzi che mi spezzavano il respiro. Alessandra stranamente non si arrabbiò come mi aspettavo, mi accarezzava la testa e mi parlava dolcemente. Diceva che il mio era un momento di passaggio, che da bambino stavo diventando un adolescente. Non la smetteva di accarezzarmi e mi rassicurava. Le cose si sarebbero aggiustate. - Lo so che ora ti sembra tutto così difficile ma vedrai che passerà - disse. Dovevo solo cercare di calmarmi perché ero un bambino dolce e con la dolcezza avrei raccolto maggiori attenzioni che con le botte. Mi accompagnò in sala medica dove mi iniettarono qualcosa. Tornai a letto e chiesi ad Alessandra di stare vicino a me finché non mi fossi addormentato. Mi tenne la mano e piano piano i singhiozzi lasciarono il campo al sonno che mi avvolse, rassicurato da quella mano che fece quello che libri, disegni, clima e psicologi non erano riusciti neanche ad immaginare.
Da quel giorno lei diventò la mia migliore amica e cominciai a divertirmi con i miei compagni ancora terrorizzati dalle botte che avevo distribuito
Alla fine del turno, tornando a casa, mi buttai piangendo tra le braccia di Alessandra che mi accolse e mi rassicurò dicendomi che ero stato bravo e che non avrebbe detto nulla ai miei genitori. Io però ero triste perché non l'avrei più rivista e il distacco da lei era difficile e doloroso.
La sua dolce fermezza mi aveva ridato comunque la fiducia nelle persone adulte.
Come al solito ero diverso da tutti gli altri: i bambini piangevano alla partenza da Milano, io piansi per il ritorno a casa.