- Vieni a vedere che cosa ho trovato.. - 
Il ragazzo aveva parlato all'improvviso, senza alzare gli occhi da quello che stava maneggiando sul bancone. 
- Vieni, non avere paura - 
Si era girato e aveva sorriso. Il bambino era ancora fermo, immobile, nei pressi della porta spalancata del carrozzone. Sentiva sulla schiena il calore del sole che contrastava con il freddo innaturale che provava alle dita delle mani. Decise che poteva fidarsi, o che doveva obbedire. O ancora forse che quella era la speranza di poter portare a termine il suo piano. Si avvicinò a passi lenti guardando a terra per schivare le casse piene che lasciavano poco spazio per passare. Ma non perdeva di vista il ragazzo che armeggiava intorno a qualcosa grande come un ferro da stiro. E dietro di lui i contenitori con quello che era venuto a prendere: sempre più vicini, sempre più a portata di mano ma ancora lontanissimi. 
- Vedi, questo è un piccolo motore - 
Il bambino si era fermato a distanza di sicurezza e guardava il pezzo di ferraglia che il ragazzo gli mostrava.
- Vedi, questo è l'albero e la corrente lo fa girare grazie alle bobine - 
Aveva indicato le parti con le sue mani piccole e pulite tenendo sempre gli occhi sul bancone. 
- Dovrebbe funzionare - 
Alzò lo sguardo in alto scrutando fra le mille cose posate alla rinfusa sugli scaffali. Si spostò di lato dalla parte opposta dell'ingresso. Alzò le braccia e prese una batteria per auto che doveva pesare molto, appoggiandola rumorosamente sul bancone e poi trascinandola fino al piccolo motore. Si girò di nuovo verso il bambino e sorridendo gli indicò una cassa appoggiata sopra una panchina saldata alla parete del carrozzone.
- Puoi prendere i cavi rossi per piacere ? -
Il bambino si voltò e vide i cavi con i morsetti che servivano a collegare le batterie tra loro quando le macchine non volevano partire. Li conosceva, li aveva visti a suo padre. Prese i cavi e si avvicinò al ragazzo oltre la distanza di sicurezza. Ora erano vicini, lungo il bancone, come vecchi amici o compagni di avventura.




L'inverno a Milano era un lungo incubo di pioggia, freddo, neve ... La nebbia aspettava che gli altri elementi avessero finito o solamente alleggerito il loro peso su di noi per avvolgerci e rendere ovattati tutti i rumori. E il freddo era tale che stendendo i panni fuori mia madre li ritirava congelati e ci faceva molto ridere vedere le camice di mio padre che stavano rigide, impettite. La neve invece era un regalo per noi bambini e restava sui marciapiedi per settimane, in cumuli che erano via via più neri di sporcizia e che lasciavano l'alone sui marciapiedi una volta sciolti. Quando era appena scesa o quando nevicava era una festa. Non tanto le battaglie a palle di neve, ma scivolarci sopra dopo aver preso la rincorsa: questo mi divertiva molto ed era un metodo perfetto per bagnare scarpe, calze, pantaloni e avere i piedi congelati. E la nebbia allora era una condizione quasi magica: talmente fitta che dalla nostra casa al quarto piano non si vedeva la strada. Talmente densa che ne riconoscevamo l'odore prima che arrivasse e ci si appiccicava addosso come una seconda pelle. Quello che non ci piaceva era la pioggia. Era l'unica cosa che ci teneva in casa, contro la quale non potevamo opporre nessuna resistenza. Lunghi pomeriggi a guardare il mondo umido di fuori senza sapere cosa fare. La mamma ci faceva contare i punti che collezionava dai fustini di detersivo o dalla pasta, e solo questo riusciva a distrarmi dal fuoco che bruciava dentro. Non c'era la televisione che poteva farci compagnia: la scatola enorme con le immagini in bianco e nero veniva accesa solo raramente. A pomeriggio inoltrato iniziavano le trasmissioni per i ragazzi; eppure il richiamo della strada era più forte. Riuscivamo a vedere qualcosa in televisione esclusivamente durante la Fiera Campionaria, quando la RAI trasmetteva film alle dieci del mattino. Se capitava di essere a casa malati era una festa e ci sembrava tanto strano il televisore acceso a quell'ora. Non appena possibile si scappava fuori, ci si ritrovava davanti ai palazzi, lungo lo stradone che divideva le nostre case dal terrapieno e si giocava fino a sera per poi tornare a casa sporchi e affamati. I grandi mi chiamavano "faccia nera" perché pochi minuti dopo essere arrivato per strada riuscivo a sporcarmi da capo a piedi.

Un mattino di primavera arrivarono le ruspe e i camion; un nugolo di uomini liberò un ampia parte del terrapieno dalla vegetazione che aveva protetto i nostri giochi e le nostre avventure. Eravamo spaventati. Forse stava iniziando la trasformazione di tutto il nostro mondo in un centro direzionale misterioso e cupo e quegli uomini stavano cambiando il nostro destino. Invece, dopo le ruspe, arrivarono i carrozzoni e i camion pieni di materiale e un nuovo nugolo di uomini cominciò a impiantare la meraviglia che ci avrebbe affascinato e riempito il nostro tempo: il luna park. Il primo insediamento era poca cosa. C'erano l'ottovolante e la ruota, c'erano un paio di giostrine per bambini e alcuni carrozzoni adibiti a giochi di abilità con enormi pupazzi di peluche come ricompensa. C'erano le palline da tirare nelle bocce con dentro i pesci rossi che vincevi se la pallina entrava, c'erano i fucili ad aria compressa che sparavano pallini che servivano a far scoppiare palloncini colorati, c'erano delle palle di sabbia che potevano essere tirate su pile di barattoli che cadevano rumorosamente... Mentre costruivano queste meraviglie eravamo tutti attenti con gli occhi sgranati a poca distanza dal centro di quell'universo sconosciuto che si stava dipanando davanti a noi. I più fortunati riuscivano ad essere chiamati per aiutare a sgomberare fazzoletti di terreno dai sassi e dalle sterpaglie sopravvissute alle ruspe. Noi eravamo piccoli e ci toccava restare a guardare e ogni tanto qualcuno ci gridava di andare via perché ci eravamo avvicinati troppo. Passavamo tutti i pomeriggi in questo luogo che aveva acquisito una nuova magia e quando il luna park fu completato e si vestì di luci scintillanti, ci sentivamo degli eletti, i fortunati che avevano visto nascere l'universo: il nostro piccolo Big Bang. E la magia non si fermava alle giostre: c'era lo zucchero filato che usciva magicamente da un cilindro caldo che ruotava, c'erano le bancarelle che vendevano dolciumi e fili di liquirizia e la domenica mattina sfornavano frittelle cosparse di zucchero. Ci ubriacavamo di quell'odore dolce. Ovviamente nessuno di noi aveva una sola lira in tasca per assaggiare le frittelle o salire sui vagoncini colorati della ruota panoramica. Ci accontentavamo di guardare gli sfaccendati che nel pomeriggio passavano un po' di tempo tra i carrozzoni prima di trasferirsi nei bar ad ubriacarsi. Avevano giacchette leggere anche d'inverno e camice aperte; dalla grandezza della catena d'oro che mettevano in bella mostra potevi capire il ruolo e l'importanza che avevano nel sottobosco delle Varesine. E quelli che non avevano catena erano i più pericolosi. Erano magari fuori dal loro territorio e non sapevano che noi che abitavamo nel quartiere non dovevamo essere toccati o disturbati; comprese le ragazze. Un giorno capitò sul terrapieno un biondino vestito bene, con una giacca chiara e in bocca una sigaretta americana. Era spalleggiato da un tipo magro, alto, decisamente non convenzionale anche nel mondo dei ladruncoli. Sembrava un poco ritardato, rideva tutte le volte che il biondino diceva qualsiasi cosa come se fosse la barzelletta più divertente mai sentita prima. Poi d'improvviso ti si parava davanti se solo avevi per errore guardato troppo a lungo il suo protetto. Con uno sguardo freddo e gli occhi socchiusi ti faceva segno di smammare mettendo in mostra il coltello che teneva infilato nei pantaloni. Lo faceva anche con noi bambini ed eravamo spaventati. Il biondino dopo qualche giorno cominciò a pretendere di salire sui vagoncini dell'ottovolante senza pagare. Il suo obiettivo erano le donne e non appena una ragazza si sedeva in attesa del suo giro mozzafiato lui si infilava veloce vicino a lei. Diceva al ragazzo che ritirava i biglietti che lui non pagava e se avesse avuto voglia di protestare poteva parlare con lo smilzo. La ragazza a quel punto non poteva alzarsi o protestare; nella parte posteriore del vagone si sedeva il suo scagnozzo con i suoi maglioni sformati e il suo sguardo allucinato, normalmente solo perché l'amica della malcapitata di solito riusciva a non salire e a rifugiarsi tra la gente che guardava. Durò solo qualche giorno, forse una settimana. Una mattina si sparse la voce che lo avessero trovato ai piedi del terrapieno con la faccia ridotta ad una maschera di sangue. I giornali pomeridiani, a tutta pagina, raccontavano che si trattava di un regolamento di conti nella mala e che il luna park aveva attirato un numero maggiore di malviventi scatenando risse e accoltellamenti. Non era chiaro se lo smilzo fosse stato addirittura fatto fuori. Ovviamente non rivedemmo più il biondino ma il luna park era comunque catalizzatore di bulli grandi o piccoli e solo la domenica con l'arrivo delle famiglie gli sfaccendati se ne stavano alla larga. Noi vivevamo in una terra di nessuno con gli occhi sgranati sulle miserie di quella corte dei miracoli e la consapevolezza soltanto istintiva che quel mondo era "sbagliato". Il rischio che tutti noi bambini correvamo era enorme ed era quello di restare affascinati dalle leggi che regolavano quel mondo. La protezione che la "mala" garantiva era qualcosa che a volte ci faceva sentire eletti.
Quando alla fine dell'estate vennero smontate tutte le giostre e i camion inghiottirono i materiali, ci ritrovammo nell'enorme spazio vuoto orfani due volte dei nostri mondi. Era stata un'estate indimenticabile e l'inverno che ci aspettava non prometteva molto. Il terrapieno era stato spogliato della vegetazione che alimentava la nostra fantasia. Solo la parte finale, verso il palazzo della Gazzetta dello Sport era stata salvata dalla furia delle ruspe ma da tempo non ci avventuravamo laggiù per paura della gente che aveva preso dimora nei locali disastrati.