Lei
arrivò in una mattina fredda di febbraio.
Quell’anno sembrava che l’inverno avesse messo in
campo tutto l’impegno necessario per battere ogni record: la
nevicata del secolo era passata solo da qualche giorno e già
la temperatura più bassa degli ultimi vent’anni
stava attestandosi con preoccupante determinazione. La casa aveva
ancora l’odore della notte che ben si mescolava con
l’aroma di caffè, bollente, appena macchiato da un
poco di latte.
Si era seduto e aveva stretto le mani intorno al caldo della tazza per
poi sorseggiare il suo caffè con molta calma, come piaceva a
lui.
Era il suo modo di entrare piano e silenziosamente dentro il giorno, la
testa piena di pensieri, il buio che avvolgeva ancora tutto il mondo.
Si concedeva il lusso di prendersi quel tempo che era necessario a
cancellare l’agitazione della notte e le paure.
Il suono stridulo del campanello lo fece trasalire strappandolo
letteralmente da quel rito.
Era inquietante quello squillo prolungato.
Chi mai poteva essere a quell’ora del mattino?
Come poteva esserci qualcuno fuori dalla porta?
Chi aveva aperto il portone giù in strada?
Gli venne in mente che poteva essere la vicina che aveva finalmente
detto basta alla stupidità di suo marito. Già la
vedeva, in piedi, davanti alla sua porta, con un coltello in mano a
chiedergli che cosa si doveva fare per liberarsi di un cadavere.
“Sa, queste cose le fa sempre mio marito ma ora non
può perché è lui il cadavere”
Soltanto qualche giorno prima aveva chiesto aiuto per riattivare la
corrente elettrica saltata a causa di un salvavita che aveva fatto il
suo dovere. Lei non aveva la minima idea di cosa fare.
“Sa, queste cose le fa sempre mio marito ma ora non
c’è”
No, non era di sicuro la vicina. E non poteva essere nemmeno un
telegramma.
A quell’ora del mattino potevano soltanto essere guai.
Si alzò e andò ad aprire la porta.
Lei lo guardò dritto negli occhi per una frazione di secondo
e poi si infilò tra lui e lo stipite dicendo semplicemente
“ciao”. Abbandonò un borsone
nell’ingresso e poi sparì nella cucina come se
quella fosse casa sua e lui soltanto il portinaio premuroso.
Rimase un attimo perplesso da quella folata di aria fredda e per un
paio di secondi pensò che forse l’aveva soltanto
immaginata: quello che aveva visto era soltanto il vento.
Poi si voltò a guardare il suo borsone scuro, abbandonato
nel bel mezzo del tinello.
Allora pensò che sarebbe stato davvero molto meglio trovare
la vicina con il coltello insanguinato e mentalmente chiese scusa a suo
marito che forse non meritava di morire solo per essere un
po’ assente e molto stupido.
Chiuse la porta e seguì la scia del vento.
Temeva (o forse sperava) di non trovarla più, che avesse
approfittato del breve tempo in cui lui era mezzo girato per chiudere
la porta e fosse scappata via lasciandogli il borsone con i guai che
sicuramente conteneva e la certezza che anche questa volta lei fosse
uno dei sogni più complicati e strani che gli fosse capitato
di sognare. Uno di quelli che ti inebria ma che al risveglio ti lascia
morsi sulle braccia che sanguinano e fanno male da morire.
Invece lei era seduta nel posto deputato ai suoi pensieri e aveva anche
bevuto tutto il caffè.
Stava cercando con gli occhi qualcosa
da mangiare, si era tolta le scarpe e aveva abbandonato il suo giaccone
nel posto che più le era congeniale: il pavimento.
– Che hai di pronto da mangiare ? –
– Sono le cinque e mezzo del mattino Emanuela, non
c’è niente di pronto. Ti faccio delle uova ?
–
L’aveva solo pensato.
Erano inutili sia la puntualizzazione
sull’orario sia la domanda.
Andò direttamente al
frigorifero, prese due uova e la pancetta e mentre era girato a
trafficare con la padella sentì che lei si era
già accesa una sigaretta.
– Ti vedo bene
– disse e il puzzo di fumo aveva già ingoiato
l’odore della notte, quello del caffè e una bella
fetta della sua pazienza.
– Tu come stai ? – le chiese e immediatamente si
morse il labbro perché tra tutte le domande che poteva porre
quella era la più deleteria. Ora aveva la certezza che non
sarebbe andato a lavorare e già aveva cominciato mentalmente
a fare il piano per rimandare tutti gli impegni che aveva per quel
giorno.
– Mah sai – cominciò a dire –
sto per partire per l’Irlanda. Ho incontrato Kevin e andiamo
nella fattoria del padre in un paesino vicino a Cork. Ti ho mai parlato
di Kevin? E’ il batterista dei Pickwick Gallery. Me lo ha
presentato Marco quello con cui ero a Londra l’estate scorsa.
Pensa che poi l’ho incontrato per caso a Parma mentre tornavo
dal compleanno di mio padre. Siamo partiti per la Puglia con Sandro, te
lo ricordi? –
Lui era girato di spalle e in silenzio cucinava
le uova alla pancetta.
Non aveva idea di chi fosse Marco e anche Sandro
era un perfetto sconosciuto. Non sapeva nemmeno chi cazzo fossero i
Pickwick Gallery e ancora non aveva chiaro se di questa cosa avrebbe
dovuto vergognarsi.
– Poi quando siamo arrivati a Roma io avevo molto da fare e
gli ho detto: senti, io voglio condividere con te parte della mia vita
ma ora devi andare. Dimmi dove posso trovarti così appena mi
sono liberata vengo da te e poi partiamo insieme. – Doveva
aver perso qualche passaggio.
L’aveva lasciata a Parma ed era
in partenza per la Puglia.
Invece ora era a Roma e mentre da una parte
sentiva un lieve disagio perché sapeva bene quello che aveva
da fare nella capitale, dall’altro era sicuro che tra Parma e
Roma si fosse perso Luca, Graziella, un paio di Francesco e anche
qualche tipo senza nome.
- Per Cork ? – chiese timidamente e si rese conto che in
tutto aveva detto soltanto un dittongo e qualche sillaba contro il
diluvio di parole di Emanuela.
– No, per Goa. – Rispose pronta, senza nemmeno
accorgersi della sua disattenzione.
– Kevin voleva che
partissi subito ma io avevo da fare e così Franco mi ha
chiesto di partire con lui e andare a Favignana ma come facevo, dimmi,
ti sembra che io possa partire così, di punto in bianco?
–
Le uova erano cotte e prese un piatto dalla credenza
cercando di tenere lontano dal suo naso l’odore forte di cibo
cucinato. Non era proprio il massimo per quell’ora del
mattino e lui aveva in corpo solo due sorsi di caffè.
Emanuela stava ancora raccontando ma lui aveva smesso di ascoltare
tanto non c’era possibilità di collocare
esattamente nomi e luoghi su di una mappa concettuale che potesse dare
una vaga idea dello svolgersi della sua vita.
Sembrava essere
contemporaneamente a Goa, a Roma, a Londra o a Favignana ed era con
Giacomo, Andrea o forse Kevin, il batterista. Il bello era che nulla di
quello che diceva, era inventato.
Era davvero la sua vita e lui lo
sapeva bene.
Anche questa consapevolezza gli dava un senso di disagio.
Anzi era dolore.
Mise sul tavolo il piatto con le uova e lei iniziò a
divorare il cibo senza mai smettere di raccontare di come avesse a un
certo punto conosciuto Giulia,
– ti piacerebbe tanto sai,
perché è il tipo di donna che piace molto a
quelli dolci come te –
e insieme erano andate a sentire il
concerto (forse dei Pickwick Gallery ?) ma poi per strada la macchina
si era rotta e allora..
Finì velocemente di mangiare e dopo aver bevuto mezza
caraffa d’acqua si alzò semplicemente e
sparì nel bagno lasciando il suo racconto nel bel mezzo
dell’Agro-Pontino con Raffaele che stava per dirle qualcosa
che a quel punto sarebbe rimasto per lui un mistero per tutto il resto
della vita.
Alzò il suo giaccone dal pavimento trovandolo
piuttosto pesante rispetto a quanto si era aspettato.
Senza chiedersi
cosa ci fosse nelle tasche, lo appoggiò sopra il divano e
poi tornò a togliere dal tavolo il piatto e ripulire le
briciole e i pezzi di pancetta sfuggiti alla voracità della
sua ospite.
Mise sul fuoco un’altra macchinetta e mentre aspettava il suo
caffè tendeva l’orecchio in modo da intercettare
l’uragano prima che potesse ricominciare a devastare la sua
vita.
Voleva chiedergli che cosa aveva in mente, quali erano i suoi
piani, se si fermava solo qualche giorno o se aveva deciso di
“condividere un po’ della sua vita”
proprio a casa sua.
E in questo caso la domanda era: con chi?
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