Il portone era socchiuso ed era una fortuna perché altrimenti avrebbe dovuto aspettare finché qualcuno non fosse uscito oppure entrato. 
Aveva dato un rapido sguardo e la finestra al primo piano era chiusa. 
La possibilità che non ci fosse nessuno era da mettere in conto e, a quel punto, sarebbe cominciata l’attesa che poteva durare anche per ore e concludersi comunque con un nulla di fatto. 
Quando la necessità si era già insinuata nella spina dorsale l’attesa si trasformava in delirio. 
Meglio saperlo subito, ci sarebbe stato tempo per altri tentativi, senza dover rischiare nelle piazze. 
Quel giorno però lui non aveva urgenza: aveva ancora scorte sufficienti, aveva autonomia almeno fino al giorno dopo. Mauro invece nei giorni precedenti aveva esagerato e con tutta probabilità aveva già finito la sua scorta.
Quando gli aveva chiesto di andare a fare il rifornimento lui si era ben guardato dal dire che, in realtà, avrebbe potuto aspettare fino al giorno dopo. 
Da qualche tempo ormai sostanze e soldi erano divisi ed era finito il tempo della comunione di beni e mezzi di trasporto. Si era formato un solco e nessuno di loro si fidava più dell’altro. 
Avere di che nutrire la propria dipendenza era indispensabile e privarsi anche di una minuscola quantità era impensabile. 
Non esistevano più amici o conoscenti. 
Lui ne aveva la certezza. 
Aveva chiesto soldi e Mauro gli aveva detto che erano finiti. 
Lui aveva guardato dietro lo specchio del vecchio armadio in camera e c’erano diverse banconote, più di tremila franchi svizzeri, frutto di uno dei traffici che sostenevano i vizi e il vivere quotidiano. 
Non li aveva toccati, ma quello era un segnale chiaro che ognuno avrebbe badato al proprio tornaconto senza curarsi di quello che sarebbe accaduto all’altro. 
Era certo che Mauro avesse una sua idea di proporzioni e di spettanze, sapeva che in qualche modo tratteneva per se maggiori quantità, ma non se ne doleva più di tanto. 
C’erano soldi a sufficienza e la polvere si trovava dappertutto. 
E poi, forse, era davvero giusto che avesse stabilito delle differenze: i rischi che correva erano maggiori.


Entrò, chiuse dietro di se il portone e poi salì le scale. 
Era un vecchio palazzo raccolto intorno ad un cortile su cui affacciavano i quattro piani di ringhiera. 
Le abitazioni erano un susseguirsi regolare di porte e le finestre laterali sembravano servire soltanto a interrompere quel paesaggio malato di una simmetria noiosa che lo faceva assomigliare più a una prigione che a una civile abitazione. Quelle finestre si aprivano sull’intimità delle famiglie e quindi dovevano essere schermate, mimetizzate, in modo da non invitare gli sguardi scostumati di chi ci passava davanti. Così le sfumature scure delle porte erano umiliate dall’esplosione dei colori dei drappi messi a protezione della privacy.
La prima casa aveva la finestra completamente chiusa da un telo colorato che sicuramente lasciava nella penombra l’intimità dei suoi abitanti. L’ultima, invece, quella prima del muro, aveva tende leggere, bianche, trasparenti, legate ai lati con una leziosità un poco pretenziosa, figlia della certezza che nessuno sarebbe arrivato fin laggiù a infilare sguardi dentro le vite altrui. 
La casa di Nicola era la seconda al primo piano e la sua finestra aveva semplicemente una veneziana verde con le asticelle rivolte verso l’alto in modo che nessuno potesse neanche sbirciare. 
La porta era socchiusa come se da un momento all’altro qualcuno dovesse uscire. 
Si fermò quasi per evitare di andare a sbattere contro chi evidentemente aveva dimenticato qualcosa all’interno ma che sarebbe sicuramente uscito. Poi, passato qualche istante, scostò di un poco l’anta della porta chiamando l’uomo e subito dopo la sua donna: 
– Nico? , Elena? – 
Nessun rumore gli arrivò, nessuna voce di risposta. 
Indietreggiò verso la lunga ringhiera di ferro, un po’ perplesso. Non sapeva davvero cosa fare, era una situazione nuova ma i sensi intorpiditi non gli mandavano segnali di pericolo. Aveva solo timore di disturbare qualcosa di importante, di entrare in un momento inopportuno. 
Si guardò intorno e apparentemente non c’era nessuno. I lunghi ballatoi erano vuoti e silenziosi ma dio solo sapeva quanti degli abitanti di quel caseggiato erano in attesa, dietro le loro tende, di qualcosa che rendesse saporita una giornata calda e polverosa. 
Non si poteva rimanere a lungo davanti a una porta socchiusa.
Si fece forza e aprì l’anta chiamando nuovamente e a voce alta Nicola e la sua donna. 
Di nuovo non ebbe risposta e quindi non rimase che scostare la tenda azzurrina entrando nell’appartamento.

La stanza era piuttosto piccola e occupata in gran parte da un letto messo nell’angolo opposto all’ingresso. Lungo la parete a destra dell’entrata una madia bassa, quasi una cassapanca. Poi soltanto un paio di sedie ingombre di vestiario e un tavolino che occupava il poco spazio tra il letto e l’apertura che conduceva all’altra stanza. 
Niente altro. 
Non c’erano fotografie o quadri alle pareti. 
Un filo elettrico sbucava direttamente dal soffitto con attaccato un vecchio portalampade in ceramica che un tempo doveva essere bianco e poi solo la lampadina polverosa. 
Il bagno era in comune, sul ballatoio e l’altra stanza, quella che dava sulla strada, con tutta probabilità era la cucina. 
Non aveva mai avuto modo di guardare, anche se era indubbiamente strano che la stanza di ingresso fosse la camera da letto. D’altronde non c’era logica o semplicemente qualcosa che potesse definirsi “nella norma”. 
Considerazioni fatte durante precedenti visite, mentre aspettava il suo turno oppure solo che Nicola avesse la lucidità di ascoltare le sue necessità e agire quindi di conseguenza. 
Ora la scena era decisamente inusuale anche per quell’ambito così particolare e richiedeva un paio di riflessioni, urgenti.