La casa è appoggiata sulle rocce, quasi incastrata.
Ha mura spesse, intonacate con la calce bianca e gli spazi sono essenziali, senza fronzoli.
Il terrazzino guarda direttamente la distesa d’acqua e spesso, nelle notti insonni, mi siedo ad ascoltare il vento, sento che porta con sé tutti i respiri degli uomini che hanno attraversato il mare.
A volte riesco a coglierne i pensieri, le malinconie; le paure sono le stesse che confondono i miei occhi, quelle che tengono svegli, insonni, con i pensieri che non smettono mai di fare rumore.
A volte invece sento i sogni.
Riemergono dal buio più profondo e sono persone, volti, strade su cui posare i piedi, pietre dove appoggiare le speranze.
Spesso mi parlano di case abbarbicate sulle rocce, le mura bianche e un vecchio, malato di malinconia, seduto ad ascoltare il vento.
Ci sono poi le notti in cui quel vento invade questa casa, si insinua dentro gli angoli, alza la polvere lasciata dalle lacrime e sembra gonfiare i muri come se fossero le vele di una barca fragile e insicura.
Non è possibile fermarlo, nemmeno se si zittisce il cuore.
Bisogna lasciarsi andare, farsi trascinare via.
Sono le notti in cui mi mancano i tuoi occhi come se fossero un appiglio per sostenere il peso spaventoso di un universo intero accartocciato e poi buttato via. Le notti in cui le grida di terrore nascono dentro, nel luogo in cui abitavano i miei sogni e si propagano come le onde dentro il mare: senza fermarsi mai, senza stancarsi mai.
Allora chiudo gli occhi e i miei pensieri si confondono, inciampano, non sanno più dove nascondersi per non lasciarsi lacerare da quel vento.
Non so se sono sveglio o se la realtà è questo sonno spezzettato e inutile che non promette mai il refrigerio di una mattina fresca e delicata.
Forse sono soltanto i deliri della notte.
Di giorno è sufficiente chiudere gli occhi e poi riaprirli in modo da convincersi di essere ancora vivi.
Di notte invece il buio si impossessa delle vite, mette paura.
È necessario avere braccia dentro le quali rifugiarsi per provare a sopravvivere.

Era il mio sogno, sai, aprire la finestra di mattina e respirare il mare.
Ora che sono qui, guardo questo orizzonte umido di acqua e a volte mi confondo.
Mi sembra un luogo conosciuto, un’isola, dove è possibile trovare cielo, aria da respirare.
Accade quando i ricordi volano via come gabbiani ubriachi di salsedine.
Allora il mare sembra che sia il luogo adatto alle mie lacrime, l’unico posto dove si possa stemperare questo dolore cupo che corre nelle vene. Riesco a restare immobile per ore oppure chiudo semplicemente gli occhi e penso a te.
Rivedo all’infinito il tempo in cui la rabbia ha cancellato il desiderio lasciandomi i tuoi occhi in bella mostra a ricordarmi che eri tu quella che accendeva i giorni.
Rivedo il lento sfilacciarsi di tutte le parole, svuotate dai significati noti, ridotte a baluardo di difesa, luoghi dove nascondere la propria solitudine.
Rivedo i tuoi silenzi, gli occhi che parlano, come una litania che ubriaca, che confonde, che non permette mai di allontanarsi nemmeno di un respiro, nemmeno di un minuto.
Rivedo te e questo acquieta la mia ansia allo stesso modo in cui la voce, la tua voce, era l’unico rimedio alla paura.

Ci sono invece giorni in cui io mi incammino lungo le strade strette di questo paesino e cambio i miei orizzonti.
Sento persone intorno a me che parlano di cose che ormai non mi appartengono, non mi sorprendono.
Arrivo quasi al limitare delle onde e mi siedo sempre rivolto verso il mare perché non riesco più a sopportare cose o persone che siano a distanze limitate.
L’uomo del bar ormai mi riconosce e senza che io lo debba chiedere porta un caffè nero e acqua fredda.
Appoggia tutto sopra il tavolo, senza parlare, senza necessità di gentilezze inutili o vacui sorrisi di circostanza.
Mi rassicura questa consuetudine.
Mi rassicura questo ripetersi di gesti e di persone che quasi riesce a dare un senso alla tua assenza.
Come se fosse uno spezzone di una pellicola consunta che si ripete all’infinito.
Un film che spiega l’attimo che segue la devastazione, quando non hai ripreso a respirare e non sai ancora se sei vivo.
È quasi un limbo dove il dolore è solo un boato che da qualche istante si è perso all’orizzonte e la disperazione arriva solo se il respiro si fa profondo e smuove il sedimento dentro l’anima.
L’attimo prima della morte, o l’attimo dopo.
Così io bevo il mio caffè e poi riapro gli occhi e lascio che lo sguardo si perda nuovamente dentro il mare.
Riprendo il mio cercarti e non so dove tu sia.
Forse è proprio per questo che guardo solo spazi immensi, enormi, sconosciuti: tu sei dentro di me come una malattia ma non riesco mai a vederti in altri luoghi, non riesco mai a sentire niente di più che grida, che paura.
Cammino sopra un filo teso e non so dove cominci, non so dove finisca, non so nulla di più di ciò che vedo: un mare immenso e occhi che si perdono.