Aveva
ancora gli occhi chiusi
quando la decisione si era infilata di
soppiatto dentro la sua testa.
Era
arrivata come un visitatore inopportuno e fastidioso, qualcuno di cui
conosci la predisposizione a fare danni e sai che non potrai mandarlo
via.
Stava dormendo e mentre il sonno si andava assottigliando riusciva
anche a pensare, a volte addirittura indirizzava i sogni, li
costringeva a dipanarsi in luoghi conosciuti o con persone che era lui
a scegliere.
Era come se improvvisamente avesse accesso alla cabina di regia, al
luogo misterioso dove avevano origine i suoi sogni.
Era una condizione che in altri tempi riusciva a dargli carica per
affrontare il giorno che piano entrava dalla sua finestra.
Poi era arrivato l’incubo e le immagini che popolavano quel
limbo erano tutte laceranti e dolorose.
Non c'erano più sogni.
Quella mattina, mentre dormiva, aveva visto per intero il vuoto immenso
che si portava dentro, aveva toccato l'assenza di qualsiasi futuro,
sentito quel dolore che accompagnava da un tempo spaventoso la sua vita.
Allora la decisione era arrivata come una conseguenza logica, naturale.
Ineluttabile.
Quell’aggettivo riusciva dargli un minimo sollievo.
Rendeva tutto più accettabile, riusciva quasi a dargli la
consapevolezza che non c’era altro da fare.
In altri momenti, il solo pensiero gli avrebbe fatto spalancare gli
occhi cercando aria per calmare il battito furioso che sicuramente
avrebbe sconquassato il petto.
Rimase nella stessa posizione, gli occhi chiusi, le gambe un po'
piegate, un braccio lungo il corpo e l’altro sotto il morbido
cuscino.
Ineluttabile.
Se fosse stato sveglio, avrebbe cercato l’etimologia della
parola.
Ineluttabile.
Contro cui non ci si può opporre. Senza
possibilità di lotta.
Gli
venne in mente una mattina di sole di molti anni prima, una ragazza con
i capelli chiari e occhi che avevano il colore delle bacche di cacao.
Era venuta a cercarlo nel suo Hotel e camminavano in Plaza de Armas nel
centro di Lima sotto il sole malato di smog della Metropoli peruviana.
Lei gli aveva detto: “Hay que luchar”, bisogna
lottare.
Aveva a che fare con un tipo, un italiano, finito in carcere per
traffico di stupefacenti.
Non ricordava il nome, non ricordava nemmeno più chi fosse
il trafficante ospite delle galere peruviane.
Ne aveva sentito parlare per la prima volta al suo arrivo a Barbados, a
gennaio e lungo la Panamericana Sur la storia si era arricchita di
dettagli, luoghi, versioni diverse degli stessi accadimenti.
Con una frequenza quasi preoccupante gli capitava di incontrare
qualcuno che conosceva i fatti: sembrava quasi che in tutto il
Continente Latino Americano non ci fosse altro argomento di
conversazione.
Un Continente ridotto a un condominio dove le sorti di ognuno erano di
dominio pubblico.
Con il procedere del viaggio aveva incamerato così tante
informazioni che gli sembrava quasi di essere stato testimone di quei
fatti. La sua conoscenza aveva indotto molti a ritenere che lui fosse
coinvolto in quell'arresto, che conoscesse bene fatti e nomi
perché li aveva visti da vicino.
Lui, l'italiano, forse si chiamava Marco, era di Grosseto ed era stato
preso con una quantità di cocaina che variava ad ogni
racconto. Qualcuno diceva pochi grammi, qualcuno invece sosteneva che
si trattasse di un carico già pronto per essere spedito
oltreoceano.
Erano usciti dall'Hotel e la ragazza lo aveva portato in un bar che si
trovava in una strada al lato della grande piazza.
Il locale era stato aperto molti anni prima da un torinese e aveva un
lungo bancone fatto di legno e cromature.
Anche i tavoli e le sedie erano di legno e i camerieri sfoggiavano
grembiuli di un colore rosso acceso.
Era un bar famoso a Lima e per una cifra spaventosa potevi ordinare un
Campari Soda con ghiaccio e lime e se si disponeva di risorse
illimitate anche la bottiglietta panciuta dell’acqua minerale
San Pellegrino.
Prelibatezze a caro prezzo a diecimila chilometri da casa.
Si erano seduti ai tavoli che occupavano una parte del largo
marciapiede e senza preamboli lei gli aveva passato una boccettina di
vetro, normalmente usata per i medicinali.
La boccettina era chiusa da un tappo di plastica ed era piena di una
polverina bianca.
Lui aveva guardato la ragazza e senza dire una parola si era alzato per
andare in bagno.
Stava pensando che era fortunato, era passata solo un'ora dal suo
arrivo a Lima e già aveva tra le mani la polverina magica.
Scese le scale e si rese conto che il bagno era tutt’altro
che un luogo appartato; non era facile trovare un angolo nascosto dove
poter gestire con calma il contenuto della boccettina.
Voleva metterne un po’ sulla gengiva come si faceva allora,
per valutarne la purezza, voleva trovare una superficie pulita e liscia
dove posarne un poco per assaggiarla prima dell'assunzione vera e
propria; voleva giocare al cocainomane, insomma, ma si rese conto che
sarebbe stato come farlo al tavolo del bar, davanti a tutti.
Si chiuse allora dentro la latrina e in pochi secondi aspirò
direttamente dalla boccetta avendo cura di azionare lo sciacquone che
grazie a dio era perfettamente funzionante.
Aprì la porta che già sentiva un gusto amaro
scendere appena dietro l’epiglottide e quel formicolio alla
base della nuca.
Nel bagno stazionavano alcune persone: qualche avventore, un
inserviente che passava lentamente uno straccio lurido per terra.
Poi c'era un tipo che era di sicuro un poliziotto.
Era girato e sembrava fosse intento a lavare le sue mani.
Aveva occhiali scuri e tramite lo specchio gli regalò uno
sguardo che si appiccicò immediatamente alla sua
pelle.
Sentì quegli occhi frugare dappertutto alla ricerca di
minuscoli frammenti di quella polvere che dai polmoni stava passando
nel suo sangue.
Il breve tragitto per uscire da quel bagno sembrò durare
un'eternità ma Il poliziotto decise che i suoi capelli
lunghi e l’orecchino facevano di lui un semplice consumatore
di marijuana, e quindi lo lasciò tornare al tavolo dove la
boccettina fece il viaggio di ritorno fino alla borsetta da cui era
uscita.
– Quindi conosci Marco ? –
– No, non lo conosco – gli rispose – ma
da quando sono in Sud America incontro solo persone che parlano di lui
–
Gli fece un nome.
Uno che aveva incontrato a Vilcabamba, in Ecuador, uno che era andato
via il giorno prima dell’arresto di cui tutto il Sud America
parlava.
– Lo so che molti pensano che sia stato lui a raccontare
tutto all'Interpol ma non è vero –
Lei
lo guardava e si convinse di avere davanti una persona che conosceva
bene i fatti, qualcuno coinvolto almeno quanto lei e non rimpianse la
quantità di polvere che non era più nella sua
boccettina.
– Ma è ancora a Vilcabamba ? – chiese
– No, è in aereo in questo momento
–
Il tipo stava tornando in Italia e a quanto era dato di sapere aveva
con se parecchia cocaina.
– Mi ha detto che tornerà con i soldi che servono
per Marco – aggiunse.
Lei annui, quella notizia sul viaggio di ritorno era per lei preziosa,
più della polvere che a Lima scorreva a fiumi.
Era una conferma ulteriore che poteva fidarsi di lui, che lui era del
giro.
– Stiamo cercando di trovare un avvocato che si occupi di
questa faccenda, abbiamo già raccolto un po' di soldi.
– Dobbiamo solo trovare quello adatto –
Lui aveva capito che si trattava di pagare qualcuno che facesse uscire
Claudio.
Si, era Claudio il suo nome, non Marco.
Cominciava a ricordare anche dettagli che erano sepolti sotto la
polvere del tempo.
Finirono di bere il loro aperitivo e si alzarono dal tavolo.
Il tipo con gli occhiali scuri era all'ingresso del locale e stava
guardando proprio dalla loro parte.
Forse aveva cambiato idea, dovevano andare via.
Lasciò sul tavolo la banconota che normalmente sarebbe
bastata per una settimana di vitto e alloggio.
Niente in confronto con quello che sarebbe costata la polvere che dopo
i polmoni aveva ormai preso possesso dei neuroni.
Fecero un giro lungo per poi tornare nella piazza dal lato sud.
Lei era carina, era di carnagione chiara, sicuramente della minoranza
di origine spagnola, gente con tanti soldi che abitava a Barranco o
Miraflores.
Gli disse che doveva stare attento, che Plaza de Armas era una zona
molto pericolosa.
Quelle parole gli regalarono una cattiva sensazione.
Nell'euforia di quell'incontro si rese conto di essersi infilato in una
storia molto più grande di quelle chiacchiere che fino a
quel momento avevano nutrito il suo sentirsi parte di quel mondo.
Cominciò a realizzare che poteva davvero essere pericoloso:
la polizia che stava dietro a quelle storie non era fatta di persone
che si sarebbero accontentate di cento dollari per chiudere un occhio
oppure tutti e due.
Non gli sembrava più nemmeno interessante la
possibilità che intravvedeva di andare a casa della tipa,
dove sicuramente avrebbe trovato altra cocaina e forse
qualcos’altro di altrettanto eccitante.
Doveva sganciarsi e soprattutto doveva smetterla di interessarsi a
quelle persone, ai fatti che complicavano la loro vita.
– La situazione qui a Lima è davvero
così brutta ? – chiese
– In sole due ore ho già visto più
Interpol che negli ultimi sei mesi –
Lei gli sorrise ed era bella, ridevano anche i suoi occhi.
La sensazione di pericolo era quasi passata.
– Hay que luchar si quieres vivir en buena onda –
gli disse
– Cevere – rispose lui, ed era un modo di dire che
aveva imparato tra la Colombia e l’Ecuador.
– Cevere – rispose lei e gli sorrise
ancora.
Graciela, si chiamava Graciela e c’era anche una sua amica
con lei.
Prima di andare via gli aveva dato un bacio sulla bocca.
Qualche
mese dopo, a La Paz, in un Hotel del centro, finì per
incontrare proprio Claudio che nel frattempo era riuscito a uscire dal
carcere di Lima.
Lui e la sua donna, chiusi in una camera con un sacco di juta pieno di
foglie di coca, come due contadini delle alte valli di Puno e Titicaca.
La bocca era tinta di verde e gli occhi raccontavano una febbre che non
riusciva a uscire, costretta dentro una pelle lucida, tirata, come se
fosse cuoio steso ad asciugare, bruciata da un sole troppo vicino per
essere un amico.
C’era anche l’Interpol in quell’hotel:
Hotel Italia, si chiamava, questo lo ricordava bene.
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