Cambiò posizione tenendo sempre gli occhi chiusi. Era praticamente sveglio e percepiva il chiarore che aveva invaso la sua stanza. Non c’era fretta; quello che doveva fare non aveva una scadenza o un orario definito. Poteva anche passare tutta la mattina immerso nei ricordi, restare immobile come in un liquido caldo e protettivo. Si fermò un attimo a riflettere sul perché fatti accaduti più di trent’anni prima erano tornati alla mente in modo così vivido. Sentiva ancora quella sensazione entusiasmante per il Campari Soda bevuto al tavolo di un bar nel centro di quella città pericolosa e affascinante. Sembrava fosse accaduto solo qualche ora prima. Negli ultimi due mesi del suo viaggio aveva dormito quasi sempre in piccoli "hostal" pulciosi, poco più che catapecchie, che avevano a volte i pavimenti in terra battuta. A Vilcabamba aveva preso in affitto una capanna e spesso nella notte sentiva gli Armadilli zampettare intorno al suo giaciglio, entrati da chissà quale passaggio scavato tra le pietre. Aveva mangiato quasi esclusivamente zuppe sconosciute da due centesimi di dollaro senza sapere che cosa esattamente contenessero. Essere in una grande città voleva dire permettersi un hotel magari con docce e acqua calda, cibo decente.. Si rigirò su un fianco e un piatto con la polentina calda e i gamberi di fiume si materializzò come d'incanto nella sua mente. Il rosa tenue ed il sapore delicato dei molluschi, il fumo leggero che saliva dall’impasto morbido e giallino. La sala da pranzo era in realtà un largo corridoio ed era affollata di persone: c'era un brusio sommesso e gli avventori erano seduti ai tavoli addossati lungo i muri. Il loro parlottare d'improvviso diventava un baccano fastidioso per poi, senza ragione alcuna, tornare ad essere un chiacchiericcio sopportabile. Davanti a lui c'erano due occhi che attraversavano la pelle andando a leggere direttamente dentro l’anima. Non era possibile porvi rimedio, non si potevano limitare le profondità che quegli occhi riuscivano a raggiungere. Non c’era la necessità di nascondere alcunché, non era nemmeno necessario costruire svincoli o sentieri lungo i quali sviare quello sguardo, indirizzarlo verso luoghi dove i suoi sogni e le sue mani non avevano dimora. Lei aveva accesso incondizionato ad ogni dove. Non c’erano paure o timori che potessero cambiare quella condizione. Era così, e non poteva essere altrimenti. Si mosse ancora e cambiare nuovamente posizione era una necessità per cancellare dalla mente la sala da pranzo, i gamberi, la polentina ma soprattutto gli occhi: erano quelli che davano dolore. Si mise a pancia in giù e per un lungo attimo la mente fu sgombra di pensieri, come un cassetto vuoto. Rivide allora un mobile in camera da letto, lo specchio grande e un cassetto lungo e basso che conteneva una miriade di oggetti. La stanza era talmente grande che una volta che avevano disposto i letti e rimontato il grande armadio, restava così tanto spazio che rimasero tutti stupiti, incapaci di trovare una diversa collocazione del mobilio per riempire al meglio i metri quadri che erano avanzati. Prima di allora avevano abitato in una casa piccola sullo stesso pianerottolo: due stanze che erano allo stesso tempo cucina, salotto, tinello, corridoio e camere da letto. Quando era l’ora di dormire dovevano spostare il tavolo su cui mangiavano per consentire l’apertura del mobile che conteneva il letto. Lui aveva il lusso di un lettino tutto suo in un angolo dell’altra camera, insieme ai genitori. La nuova casa invece aveva spazio e un lungo corridoio. Erano tutti eccitati da quelle enormi stanze e mentre suo padre arrampicato sulla scala le dipingeva di pulito loro godevano di quegli spazi inusitati. Nella camera grande avrebbero potuto appendere i manifesti dei cantanti o dei divi dei fotoromanzi e soprattutto dormire finalmente in letti separati. Per lui ci fu soltanto un letto nuovo, rete ortopedica per aiutare la sua spina dorsale a rimanere dritta. Com’è che fu deciso che quella stanza diventasse poi la camera da letto dei suoi genitori ? Non se lo ricordava. Era comunque un filo di pensieri che non conduceva a nulla e in più era praticamente sveglio. Così cambiò di nuovo posizione e tutti gli oggetti custoditi dentro il cassetto si spensero in un attimo. Rimase per un po’ a cercare di recuperare il fascino di quel suo gioco solitario, ore passate tra le vecchie foto, gli accendini rotti, le monete, i francobolli, la corrispondenza con i nonni e i documenti della casa oltre al rasoio elettrico che suo padre non usava più. Restava a guardare quella miriade di oggetti per ore nella speranza di scoprire qualche cosa che non aveva visto la volta precedente. Si rese conto che gli era rimasta la tendenza a ricreare quei cassetti: riempiva il cesto posato sulla madia con tutto quello che gli capitava di trovare, oggetti totalmente inutili, bulloni ritrovati per la strada oppure cose che avevano avuto la propria utilità ma che erano ormai rotte o inservibili. Qualcuno gli chiedeva a volte se si poteva buttare via qualcosa ma era difficile rispondere; certo che era possibile, si poteva buttare tutto il contenuto della cesta ma poi che cosa avrebbe fatto quel bambino senza il cassetto pieno di quelle meraviglie ? Come poteva vivere senza gli oggetti che alimentavano la sua fantasia e la necessità impellente di far viaggiare l’immaginazione ? Fece un sospiro, anche questa era una faccenda che meritava una riflessione. Ma nel frattempo era del tutto sveglio e già la voglia di caffè si proponeva con una certa urgenza. Aprì gli occhi e seppe di nuovo che aveva preso una decisione ma questa volta un senso di paura si fece largo tra i Campari Soda, i trafficanti e i cassetti pieni di cianfrusaglie. Lei era lì, qualche millimetro oltre quei ricordi; bastava lasciare libera la mente e subito qualcosa si insinuava prepotentemente come una marea che non si riusciva a contenere se non passando tutto il tempo a rinforzare le difese. Si alzò ma quella sensazione di paura era aumentata. Lasciare che i pensieri si avvicinassero così tanto a lei si era rivelato un peso insopportabile. Sentiva un tuono sordo dentro la sua testa e come d’abitudine il respiro non bastava ad alimentare la necessità di aria. La sua assenza era una sensazione di equilibrio instabile e l’abisso che sentiva sotto di sé era un orrido che avrebbe inghiottito non solo la sua vita ma tutta la sua anima. Respirò con determinazione cercando di scacciare via tutti i pensieri come se fossero insetti fastidiosi. Mosse i suoi passi fino alla cucina e in quel tragitto riuscì a scrollarsi di dosso gran parte di quell’ansia. Quando il caffè fu pronto e il suo profumo aveva invaso il mondo, sedette con in mano la sua tazza e rifletteva sul da farsi.

Aveva lasciato Graciela nel bel mezzo della Plaza de Armas, le aveva dato appuntamento per il giorno dopo. Lei e la sua amica erano sparite veloci nella moltitudine di indios, mendicanti, militari, poliziotti, venditori di Chiclets e lustrascarpe che affollavano l’enorme quadrato davanti al Palazzo del Governo. Lui si era diretto verso l’Hotel che si trovava a poca distanza dalla Stazione da dove partiva il famoso treno che arrivava in qualche ora sulla sierra a quattromila metri di altitudine. In Hotel era rimasta Giulia che non aveva voluto muoversi prima di una doccia e del bucato che da troppi giorni anelava. Avevano un altro appuntamento per la sera: a Lima avrebbero trovato Peter, lo svizzero tedesco che gli aveva forato il lobo dell’orecchio due mesi prima in un hotel di Quito. Aveva messo un po' di ghiaccio e dopo qualche istante con un chiodo o uno spillone aveva trapassato la cartilagine da parte a parte usando un tappo di sughero a contrasto. Lui aveva sentito caldo.
- Resta fermo – gli aveva detto. Aveva preso del cotone e lo aveva messo intorno allo spillone o al chiodo. Solo quando lo ritrasse lui si rese conto che era diventato rosso di sangue. Giulia aveva riso.
Peter stava tornando in Svizzera e aveva con sé un pappagallino. Giulia gli chiese come avrebbe fatto a trasportare la bestiola in aereo e lui le disse che i pappagalli erano in grado di dormire per tutto il tempo in cui erano al buio. Per farci capire coprì la gabbia con una manta colorata e il pappagallino rimase immobile senza più dare segni di vita. Peter aveva viaggiato lungo la panamericana dal Messico fino alla Bolivia e ora il suo viaggio era finito. Lo avevano incontrato a San Agustin e poi si erano incrociati lungo la strada che attraversava l'Ecuador spingendosi fino al deserto nel nord del Perù. Parlavano di luoghi e di persone che il viaggio regalava tutti i giorni. Parlavano in Castigliano perché quella era la lingua che tutti potevano comprendere. Ma quella sera Peter era completamente fatto. Restava per lunghi momenti immobile, con gli occhi chiusi, come se qualcuno avesse azionato un interruttore generale mettendo in stand-by l’intero suo universo. Accadeva improvvisamente, magari nel bel mezzo di un racconto oppure con la sigaretta accesa tra le dita. A volte l’assenza durava poco, qualche secondo, a volte invece Giulia doveva togliere la sigaretta dalle sue dita per evitare che Peter si ustionasse. Poi, senza preavviso, l’intero meccanismo ripartiva esattamente dal punto in cui si era fermato e lui riapriva gli occhi e continuava quello che aveva interrotto ristabilendo così la connessione con il mondo che lo circondava. Probabilmente non si rendeva conto delle interruzioni: il tempo era per lui una condizione del tutto personale. Dopo una delle assenze prolungate, quando ormai sembrava che non dovesse più riaversi, aprì di colpo gli occhi e fece per portare alla bocca la sigaretta che Giulia aveva tolto e spento ormai da qualche tempo. Rimase per un attimo perplesso, smarrito dalla sequenza temporale che aveva fatto sparire la sua sigaretta appena accesa senza che si ricordasse di averla assaporata. Probabilmente si era reso conto che qualcosa non stava funzionando come d’abitudine, ma la sorpresa durò soltanto qualche istante, si accese un’altra sigaretta e riprese il suo racconto come se nulla fosse accaduto. Si addormentò infine o perse completamente il suo contatto con la realtà. Il pappagallino era ancora immobile nella sua gabbia oscurata dalla manta e lui era seduto con la schiena appoggiata alla parete, sul viso l’espressione di chi non si ricorda una parola e si è solo concentrato per ritrovarla. Lui e Giulia aspettarono più di mezzora senza che Peter riemergesse da quello stato catatonico in cui era piombato. Nessuno dei due era preoccupato, probabilmente aveva ingerito del Peyote ed era finito in chissà quale universo parallelo. Si accertarono che la camera potesse essere chiusa dall’esterno per evitare che fosse derubato e dopo aver nascosto tutte le sigarette uscirono per strada. La sera era fresca e il vento portava finalmente solo l’odore dell’oceano. Era piacevole passeggiare per quelle strade ampie, tra quei palazzi bui e maestosi figli di quel passato coloniale che era croce e delizia di tutto il continente. Non c’era l’assillo dei mendicanti e dei venditori di qualsiasi cosa. Certo era pericoloso, ma ormai erano entrambi abituati e i sensi erano all’erta in ogni situazione. Lui aveva ancora una discreta quantità di polvere sparsa tra i neuroni, a Giulia invece era bastata la doccia prolungata per ottenere la stessa sensazione di benessere. Ridevano di Peter ed erano contenti. Lui già pregustava un fine di serata degno di quel suo primo giorno a Lima, Perù, America Latina.