Conobbi finalmente mia suocera il giorno dopo il mio arrivo.
Erano passati quattro anni dal mio matrimonio e lei non si era mai fatta viva, scegliendo di venire a Roma proprio quando ero a Magliano a seppellire i morti.
Io mi sentivo spezzata, tagliata in due: da un lato Gaetano che continuava a dire che la sua assenza era dovuta solo alla salute, al caso, alle normali difficoltà di una persona anziana; dall'altro la certezza che se avesse davvero voluto conoscere sua nuora, avrebbe trovato con facilità il modo.
Con il tempo avevo deciso di fare buon viso a cattiva sorte; "int'a' vocca chiusa nun traseno e mosche" come diceva Gaetano ed era oltremodo facile: bastava non pensarci. Eravamo a Roma, eravamo io e lui a costruire la nostra vita, a crescere i nostri figli.
Ora invece eravamo proprio a casa della suocera e i nodi sarebbero venuti al pettine ed erano nodi che mi facevano male perché non avevo scelto io di trasferirmi e forse non lo aveva scelto nemmeno Gaetano.
Forse era stata proprio lei, la suocera, a decidere.
La mia prima notte a Napoli l'avevo passata con Silvana in quella camera spoglia e polverosa, aggiungendo altre lacrime a quel vuoto desolante.
Gaetano aveva fatto portare il suo lettino da un uomo silenzioso che poi, con un lungo rampone di ferro, aveva aperto un paio di casse, trovando quasi subito quella che conteneva i nostri vestiti. Amelia aveva pulito l'armadio ed ero riuscita a mettere a posto un po' di quella biancheria prima che la stanchezza, la pancia e la tristezza avessero vinto totalmente sulla mia forza di volontà. La sera avevamo cenato sul tavolo della grande stanza al pian terreno: Amelia aveva apparecchiato con una tovaglia di lino bianco e aveva servito una pasta con il formaggio e con le uova e poi polpette deliziose che Silvana aveva mangiato prima con gli occhi e poi nel piatto, usando le mani, felice di quella trasgressione, felice di avere di nuovo accanto suo padre. Gaetano si era finalmente occupato di me, di noi, come se le mie lacrime gli avessero fatto finalmente capire che non ero più solo una voce dentro al telefono. Mi aveva portato a vedere la sua piccola stanza, al primo piano, la stessa di quando era bambino, e poi nelle cucine dove una donna enorme si aggirava senza apparentemente interessarsi a me, se non per un breve sguardo e un cenno con la testa.
Non aveva più detto nulla di sua madre.
Al primo piano avevo visto la grande porta che chiudeva le sue stanze e io evitavo di fare qualsiasi domanda mentre lui mi raccontava di un bambino che conosceva ogni angolo, ogni filo d'erba, ogni segreto di quella casa che era il suo mondo, l'unico mondo che avesse conosciuto oltre alla casa di Giugliano, fino a che non era stato indispensabile conoscere quello che stava oltre le grandi siepi di alloro.
A volte percepivo la malinconia nei suoi racconti, solo un accenno, sempre seguito da un sospiro o una risata e una battuta in napoletano.
"Assafà a Dio" aveva detto, dopo la cena, e poi si era alzato dicendo che aveva da fare, al bar.
Aveva fatto portare nelle nostre stanze lo specchio e il bacile da toeletta e l'acqua aveva un leggero profumo di violetta.
Tutta questa attenzione mi aveva un poco rinfrancato o forse era la stanchezza che aveva sconfitto le mie paure.
Dopo la cena mi ero messa seduta sul divano, insieme alla mia pancia enorme, mentre Silvana chiacchierava con la sua bambola trovata nella cassa, in mezzo ai vestiti e alle lenzuola.
Ero esausta, non riuscivo più a pensare a nulla, come se la mia testa avesse avuto troppo da fare per potersi concedere altro lavoro.
Amelia aveva sparecchiato e dopo un poco si era seduta vicino a me.
– Se posso esservi utile Signora, non avete che da chiedere –
– Chiamami Maria – le avevo risposto e mi ero accorta che questa volta il sorriso era arrivato da solo, senza fatica.
– Per colazione domani mattina vi faccio trovare le noci di Sorrento e frutta fresca; alla bambina il latte caldo va bene? –
Rimasi per un attimo senza sapere cosa dire; forse era la stanchezza o forse le sue attenzioni mi stavano toccando un posto a metà tra il cuore e l'anima e mi facevano bene, riscaldavano dentro ed era esattamente quello di cui avevo un gran bisogno.
E tutto questo io non sapevo come dirglielo, come spiegarlo.
Allora presi le sue mani e la guardai diritto dentro i suoi occhi neri.
– Grazie Amelia, grazie tante – riuscii a dire e vidi la sorpresa ravvivarle gli occhi e poi mi era sembrato che la voce non fosse più ferma quando mi aveva risposto.
– Non c'è di che – aveva detto, e poi si era girata verso la scala in pietra, quella che portava ai piani superiori, e aveva stretto gli occhi.
Silvana fece fatica ad addormentarsi perché dopo l'eccitazione subentrò la paura di essere in una casa nuova e sconosciuta.
Io non potevo tenerla nel mio letto, era troppo piccolo e avevo paura per lei, per me e per la creatura che avevo nella pancia.
Rimasi a lungo sveglia a ripensare a quella giornata lunga e faticosa, pensavo a Gaetano e forse speravo che al suo ritorno dal bar sarebbe salito per vedere come stavo, come stava sua figlia. Invece c'era solo quel silenzio pieno di paure che avvolgeva quelle stanze vuote.
Mi addormentai, infine, ma il sonno era leggero, spezzettato, macchiato da sogni complicati: Assunta vestita di celeste che si voltava verso di me, guardandomi con aria spaventata. Nel sogno avevo timore che non mi avesse riconosciuta e volevo avvicinarmi, abbracciarla ma guardando meglio mi accorgevo che non era Assunta, era zia Ata, con i capelli bianchi e gli occhi che erano fatti solo di acqua. Io ero impaurita, non capivo, guardavo intorno e non riconoscevo la stanza dove stavo: non era Magliano, non era nemmeno Roma. Cercavo Assunta e tutte le volte che mi sembrava di vederla scoprivo che in realtà non era lei, era qualcun altro e quando invece ero sicura che fosse lei e provavo ad avvicinarmi, c'era qualcosa che lo impediva, una porta chiusa, un mobile spostato senza ragione nel bel mezzo della stanza o solo una distanza troppo grande.
Mi svegliai, infine, con il chiarore del mattino.
Amelia aveva aperto le finestre facendo entrare luce e aria dentro la stanza e stava di fianco a me con la tazzina di caffè dentro un vassoio d'argento.
– Buongiorno Signora –
– Buongiorno Amelia – riuscii a rispondere, non senza fatica.
In bocca avevo ancora i sogni che avevano agitato quella notte.
Mentre bevevo il mio caffè Silvana si svegliò e si mise in piedi sul suo letto, tenendosi alla spalliera in legno: aveva un'aria sorpresa e si guardava intorno con un'espressione così tenera sul viso che mi fece uscire una risata che arrivava direttamente dal cuore. Ridevo e Silvana rideva insieme a me e poi si mise a saltare sul suo letto e più saltava e più io ridevo e lei saltava ancora di più perché pensava che fossero i suoi salti a farmi ridere.
Invece io non lo sapevo perché stavo ridendo.
Amelia ci guardava tutte e due e dopo un po' si mise a ridere anche lei e le brillavano gli occhi.
Se qualcuno fosse entrato in quel momento avrebbe sicuramente detto che eravamo tre pazze scatenate, ma io sentivo per la prima volta un caldo buono dentro di me. Pensai che Napoli potesse essere la mia nuova vita, che lo sarebbe stato, sarebbe stato sufficiente ridere e costruire dentro quel vuoto insieme ai punti fermi della mia vita: i miei figli, mio marito e anche mia suocera che prima o poi sarebbe uscita dalle sue stanze.
Mentre eravamo sedute al pianterreno a fare colazione, la tavola imbandita di colori e di sapori che mi sembravano una delizia mai provata, Silvana all'improvviso smise di chiacchierare.
Il suo silenzio per una frazione di secondo mi aveva allarmato e avevo alzato gli occhi vedendo un timido sorriso che le illuminava il viso.
Stava guardando qualcosa dietro di me e io mi girai e vidi una donna vestita di nero che stava scendendo le scale in pietra: aveva capelli bianchi raccolti in una crocchia dietro la nuca, la carnagione chiara, quasi trasparente, e un sorriso che sembrava scolpito direttamente dentro il marmo.
Silvana era indecisa se nascondersi dietro di me o rimanere seduta, quasi aggrappata al suo sorriso.
– La nonna – mi disse a voce bassa, come se spettasse a lei fare le presentazioni perché era lei quella che già conosceva quella donna.
Io mi alzai dal tavolo e feci un passo verso di lei: i suoi occhi avevano il colore del ghiaccio e sentivo il freddo penetrare dentro la pelle andando a spegnere un po' di quel calore che avevo sentito la mattina.
– Buongiorno Maria –
La voce era forte a dispetto dell'esile figura dentro il vestito nero.
– Buongiorno – avevo risposto e poi la voce era rimasta impigliata perché non lo sapevo se dovevo aggiungere "Signora" o "mammà" come diceva Gaetano.
Lui, Gaetano, non c'era.
Amelia mi aveva detto che non lo aveva visto, che forse era già uscito o forse era ancora in camera sua.
Lei aveva comunque apparecchiato la tavola anche per lui.
La suocera mi raggiunse e mi mise le braccia sulle spalle avvicinando le guance alle mie, prima da un lato e poi dall'altro.
Non avevo sentito odori da quel contatto rapido e ravvicinato, nemmeno l'odore dell'acqua usata per sciacquarsi il viso.
Era la stessa sensazione che avevo provato il giorno prima, entrando in quella stanza, come il contatto con qualcosa che non possiede il calore della vita.
Lei aveva allargato il suo sorriso e si era avvicinata a Silvanella.
– Ecco la nostra signorinella – 
La voce si era abbassata, come se parlare con mia figlia richiedesse un tono diverso.
Si era seduta poi di fronte a me e aveva detto che le dispiaceva di non essere riuscita ad accogliermi al mio arrivo.
– Non mi sentivo bene, Maria, sapessi questa schiena quanti problemi che mi da –
Sembrava un normale quadretto familiare, sembrava che mi conoscesse da tempo e mentre mi chiedevo se quello fosse ancora il sogno strano che aveva complicato la mia notte, Amelia entrò dentro la stanza.
Aveva aperto la porta e si era bloccata, per un attimo, e poi aveva ripreso a camminare verso di noi.
I suoi occhi però avevano cambiato espressione, come una nuvola che all'improvviso copre il sole.


Il mese di luglio arrivò Mario.
Faceva caldo, un caldo umido che si appiccicava sopra la pelle e il mio ventaglio non serviva a farmi stare meglio.
Gaetano mi aveva portato al mare, a Mergellina, ma anche sulla spiaggia io non trovavo refrigerio. La pancia mi pesava e mi sentivo un pesce fuori dall'acqua in mezzo a tutte quelle persone che sembravano avere un unico scopo nella loro vita: facevano sfoggio di parentele ed amicizie con Prìncipi e Marchesi e aspettavano sempre un invito nei palazzi dai nomi altisonanti, inviti che dovevano arrivare da un momento all'altro, "mò mò", come dicevano loro, con l'aria di chi sa come si vive.
Io, invece di invidiare tanta fortuna, pensavo che la vita vera quei damerini la tenevano nascosta per non doverla confrontare con le altre vite e accorgersi così che il tempo li stava consumando in quella attesa.
Amelia nel frattempo aveva pulito le tre stanze e poi erano arrivati i mobili, compreso il letto, e Gaetano era tornato a dormire insieme a me, anche se erano più le notti in cui io mi svegliavo sola. Il bar, diceva, il circolo, e io non riuscivo mai a sentire gli odori suoi e dei suoi vestiti, coperti dall'acqua di colonia, e dopo un po' mi ero convinta che dicesse la verità anche se con la scusa della mia pancia, sempre più grande, lui non mi toccava e mi mancava il fiato.
Amelia invece non mi lasciava mai da sola: mi faceva sedere su una poltrona che aveva sistemato nell'angolo più fresco della sala al pian terreno e mi portava un'acqua sulfurea per dissetarmi, l'"acqua e' mummare", che conteneva ferro, diceva lei, e che veniva da una fonte che un Re aveva fatto arrivare fino a Palazzo Reale.
Si occupava anche di Silvana e io pensavo che Dio mi avesse proprio mandato un angelo.
Dormiva in una stanza dietro le cucine, insieme a Clara, la cuoca silenziosa, ed era sempre intorno a me senza mai essere invadente.
La suocera invece arrivava la mattina e si sedeva al tavolo scambiando qualche parola con Silvana, chiedendomi se stavo bene e io non ero sicura che ascoltasse le risposte. Un paio di volte avevo provato a raccontarle di come il nostro appartamento stava prendendo forma, dei mobili, del letto; volevo anche che venisse a vedere, anche perché era pur sempre casa sua. Lei mi guardava come se non mi vedesse bene, come se io fossi lontana o trasparente, senza cambiare di un millimetro il suo sorriso che mi sembrava sempre di più posticcio, appiccicato a bella mostra, solo per convenienza.
Poi scompariva nelle sue stanze per non uscire più per tutto il giorno e Amelia le portava il pranzo e poi la cena, fermandosi sempre per una mezzora per poi tornare con una faccia scura e le labbra serrate.
Avevo chiesto a Gaetano come dovevo chiamarla e lui mi aveva detto che "mammà" andava bene ma io non ci riuscivo.
Il freddo dei suoi occhi mi ghiacciava il sangue.
Una notte mi svegliai e avevo qualcuno che mi stava strappando la carne a morsi, dentro le viscere.
Gaetano non c'era, come al solito, ed ero sola nella stanza, con Silvanella che dormiva nel suo letto.
Sentivo che la creatura stava spingendo, forte, e avevo bisogno di aiuto ma non sapevo proprio come fare per chiamare Amelia.
Le contrazioni erano già forti e ripetute e io non volevo spingere per la paura di partorire lì, da sola.
Mentre aspettavo che il dolore si calmasse quel poco che bastava per provare a scendere le scale e poi bussare alla porta di mia suocera, Amelia arrivò ansimante per le scale fatte di corsa. Aveva la camicia da notte e una vestaglia scolorita e in mano una lampada a petrolio.
Dietro di lei arrivò Clara con una brocca di acqua bollente e teli spessi di lino e di cotone.
Guardai Amelia ed ero stupita.
Come aveva saputo di quanto mi stava accadendo?
Non ci fu tempo per le domande o le conversazioni: le donne misero la lampada sul comodino e i teli sotto di me.
Io cominciai a spingere, con forza: Clara stava di fianco a me e mi teneva la mano asciugandomi il sudore dalla fronte mentre Amelia guardava le mie gambe e mi diceva che andava tutto bene, che si vedeva già la testa, che ero brava e che dovevo spingere, ancora un po', quasi ci siamo, così, più forte, sta per uscire, ecco, ci siamo...
Mario era uscito senza intoppi, insieme all'acqua.
Amelia lo aveva alzato e me lo aveva fatto vedere: era piccolo, coperto di liquido biancastro, con i capelli neri come suo padre.
Clara tagliò il cordone e lo annodò con la stessa sicurezza di quando impastava le zeppole per friggerle nello strutto. Gli mise le dita dentro la bocca per togliere dalla gola i residui di liquido e Mario cominciò a piangere, senza gridare, come se non volesse disturbare, lui, l'unico maschio in quella casa piena di donne, dove mancava l'uomo, suo padre e la sua mancanza era una ferita che mi faceva male, molto di più dei dolori di parto.
Clara lo lavò nell'acqua calda e dopo averlo asciugato con uno dei teli di lino, gli mise una lunga fascia di cotone intorno all'ombelico, prima di stringerlo dentro le fasce. Amelia, nel frattempo, mi aveva aiutato ad alzarmi e mettermi seduta sulla sedia mentre toglieva dal letto i panni bagnati e cambiava le lenzuola. Mi aiutò anche a lavarmi e poi tornai infine a stendermi sul letto, esausta, con Mario vicino a me.
Clara mise un dito nella bocca del bambino e poi lo avvicinò al mio seno e Mario ubbidiente si attaccò senza nessun timore.
Silvana dormiva nel suo letto, di fianco a quel miracolo di Dio, e non si era mossa nel suo sonno profondo da bambina.
Clara mi guardò per qualche istante e poi mi disse che tornava nella sua stanza ma che per qualsiasi cosa lei era al mio servizio.
Amelia invece prese la sedia e si sedette vicino a me.
– Come hai fatto a sapere... –
– Certe cose si sentono, Maria – mi interruppe lei e per la prima volta mi aveva chiamato per nome, come le avevo sempre detto di fare e non aveva fatto mai.
– Quando si parla la stessa lingua non servono le parole –
– Ma sei arrivata proprio il momento in cui avevo bisogno di te e nessuno ti ha chiamato –
– Come hai fatto a saperlo? –
– Mi stavo sognando mia madre che gridava e nessuno la sentiva, soltanto io potevo sentirla ma ero dentro la sua pancia e non potevo fare nulla –
Aveva gli occhi che brillavano nel buio di quella notte calda.
– Mi sono svegliata di soprassalto ed ero sicura che eravate voi che stavate gridando –
– Ma io non ho gridato! –
– Non è vero Maria, è da quando siete arrivata che gridate, ma solo io posso sentirvi –
Chiusi gli occhi e le lacrime cominciarono a uscire, calde, confortanti.
Arrivavano da un posto dentro di me dove Amelia aveva piantato un albero che stava mettendo le radici.


Amelia era più grande di me e anche i suoi dolori erano più grandi.
Dietro quegli occhi neri c'erano lacrime che lei riusciva a trattenere solo perché aveva capito quasi subito che non servivano a cambiare il mondo. La strada e le vicissitudini le avevano insegnato che le persone erano immutabili attraverso il tempo: causavano dolore e non avevano nulla da dare in cambio.
Non so che cosa l'avesse convinta che io non ero una di quelle persone, non so da cosa avesse capito che il vuoto lasciato da mia sorella aspettava solo di essere colmato e che un altro vuoto mi stava aspettando.
Istintivamente Amelia cominciò a volermi bene, "dal primo momento" diceva lei, come se fosse un amore a prima vista.
Era lo stesso amore di cui aveva un bisogno disperato, da quando era soltanto una neonata e che mai aveva trovato.
Così fu lei la prima a raccontarsi, forse perché dei miei dolori sapeva molto di più di quanto io non sospettassi di sapere.
Una sera piena di pioggia e di solitudine, dopo che Silvana si era finalmente addormentata, si mise seduta accanto a me e come se stesse riprendendo un discorso lasciato a metà, mi raccontò che non aveva mai conosciuto sua madre perché era morta partorendo.
Suo padre aveva dato la colpa a lei, odiandola dal primo momento, come se lei fosse un debito o una malattia e non un dono di Dio.
Era cresciuta sola, per la strada, tra l'immondizia e la violenza delle persone che incontrava, e soprattutto la violenza di suo padre, colui a cui Dio aveva assegnato il compito di proteggerla e che invece la picchiava, senza ragione, solo perché era ubriaco di dolore e di vino inacidito.
Era sopravissuta al freddo, alla dissenteria e alla fame solo perché le donne che abitavano i bassi del quartiere riuscivano ad avere un po' di compassione per quella bambina fatta di ossa e di silenzio e anche perché probabilmente riconoscevano la stessa violenza che aveva segnato la loro vita. Le avevano dato a turno il loro latte e poi l'avevano svezzata a pane e cipolla oppure un po' di zuppa fatta con i resti di pesce che trovavano rovistando tra l'immondizia, al porto, dopo il mercato.
C'era sempre qualcosa da mangiare per lei: bastava che bussasse a una qualsiasi di quelle porte.
Mentre mi raccontava queste cose, Amelia aveva gli occhi persi dentro quel mondo così lontano; la voce a volte si abbassava e diventava quasi un sussurro ma il dolore si sentiva, forte, fragoroso, come se fosse un grido. Mi disse sottovoce che quella bambina guardava tutta quella miseria umana che aveva attorno a sé e si era sempre chiesta come fosse possibile che proprio lei avesse la fortuna di avere così tante madri che si preoccupavano di lei e la sfortuna di non averne una solo per lei, un posto suo, fatto di braccia, dove poteva rifugiarsi quando sentiva male dentro il petto.
Quando si ritrovò le gambe sporche di sangue e un dolore atroce dentro la pancia, una di quelle donne si prese la responsabilità di dirle che cosa stava accadendo. Le disse che da quel momento in poi non ci sarebbe stato più nessuno a proteggerla e che sarebbe stato meglio per lei scegliersi un uomo, uno qualsiasi, uno a cui dare la sua obbedienza e anche qualche altra cosa che però lei allora non era riuscita a capire, in cambio di protezione, di un posto decente dove dormire. Con voce fredda le disse anche che doveva stare lontana da suo marito e che quelle che erano state madri per lei fino a quel momento, le avrebbero cavato gli occhi, senza pietà, se solo avesse osato avvicinarsi ai loro uomini. Amelia aveva capito che quel sangue era qualcosa che stava cambiando la sua vita e la cambiava in peggio, ma ancora non aveva idea di che cosa davvero significasse quel cambiamento.
Anche suo padre, quando aveva visto le macchie di sangue tra le gambe, aveva cambiato la luce dentro agli occhi, ma era difficile capire, sentiva solo i morsi della carne, nel basso ventre, e quel sangue così diverso da quello che usciva dai tagli o dalle sbucciature e non sapeva cos'altro potesse capitare.
Poi, dopo qualche giorno, tutto era passato e anche il dolore era andato via per ritornare una volta al mese, quando la luna si faceva enorme sopra il mare.
Lei si era accorta che all'improvviso non c'erano più porte a cui bussare per chiedere un po' di pane o una cipolla.
Quelle che si erano prese cura di lei fino ad allora erano ostili, come se non riconoscessero più quel mucchio di ossa, forse a causa dei fianchi che si stavano allargando, forse del seno che stava crescendo a vista d'occhio.
Le donne sapevano molto bene quale pericolo rappresentassero per loro quelle ossa, la "carne fresca" che le ricopriva e la scacciavano via con cattiveria.
Amelia chiuse gli occhi, come per richiamare dei ricordi ancor più dolorosi, difficili, troppo ingombranti e poi senza guardarmi, mi disse che una notte in cui suo padre stava riverso tra la strada e il buco dove vivevano, troppo ubriaco per arrivare fino al letto, entrò un uomo e si fermò nel buio poco oltre la soglia.
Lei stava in un angolo, rannicchiata sopra il pavimento, ad aspettare che suo padre fosse in grado di alzarsi e mettersi sul letto in modo che lei potesse finalmente chiudere la porta e addormentarsi sul pagliericcio, come faceva tutte le sere. Quell'uomo girò la testa da un lato all'altro nel buio della stanza e poi si avvicinò a lei prendendola per i capelli e trascinandola sul letto senza badare alle sue grida. Senza dire nemmeno una parola si mise sopra di lei e le spalancò le gambe mettendole anche una mano sulla bocca. Lei non riusciva a respirare e poi sentì un dolore forte tra le gambe. Ebbe paura di morire e restò immobile mentre quell'uomo si muoveva sopra di lei, schiacciandola e soffocandola, finché con un grugnito e la bava alla bocca si era girato, liberandola dal suo peso e dal puzzo nauseabondo. Era rimasto qualche momento sul letto, accanto a lei, ansimando e boccheggiando come se non riuscisse più a respirare e poi si era alzato ed era uscito, senza parlare, così come era entrato.
Quando alle prime luci del mattino suo padre si svegliò e riuscì ad alzarsi, la trovò ancora immobile, sul letto, le gambe spalancate e ancora un po' di sangue dove quell'uomo le aveva fatto male. Invece di prendersi cura di lei, si mise a gridare come un pazzo, dicendo parole che lei non aveva mai sentito e la picchiò con una violenza che non aveva mai nemmeno immaginato.
Poi si fece spazio anche lui tra le sue gambe, sempre gridando e schiaffeggiandola, ma lei non sentiva più dolore, non sentiva più nulla.
Aveva capito che cosa fosse il cambiamento di cui aveva parlato quella donna, aveva capito che significava altro dolore.
Quando suo padre si alzò e senza guardarla si incamminò verso la strada, lei uscì dal basso senza nemmeno chiudere la porta.
Prese la strada che arrivava fino al porto, i piedi scalzi e in faccia i segni delle mani di suo padre.
Non sapeva dove stava andando, non sapeva che cosa avrebbe fatto: sapeva soltanto che non sarebbe più tornata.
Io la guardavo mentre con gli occhi chiusi mi stava raccontando quell'orrore e quasi riuscivo a toccarlo il suo dolore, quasi mi entrava sotto la pelle e mi faceva rabbrividire di un freddo innaturale che non avevo mai provato, Dentro di me, in un angolo nascosto e con un poco di vergogna, io ringraziavo Dio e mio padre per essere stato un uomo giusto e ringraziavo la Madonna per la fortuna che avevo avuto di nascere in una famiglia e in una comunità dove la violenza non era così diffusa, un luogo dove noi ragazze potevamo crescere sognando il nostro futuro.
Amelia invece era vissuta tra quella violenza, rubando il cibo dalle bancarelle dei mercati, scappando dai gendarmi, dagli uomini e dagli altri "scugnizzi".
Dormiva in un buco dentro un muro, sotto una trave che reggeva il tetto di un magazzino del porto, al riparo dai topi e dai cani randagi e passava i suoi giorni cercando cibo per sfamarsi. Aveva scoperto che era facile avere un po' di formaggio o della frutta se lasciava che gli uomini le mettessero le mani addosso, anche se a volte la picchiavano e la mandavano via senza darle nemmeno un pezzo di pane.
Uno di quegli uomini un giorno la trascinò in un basso che stava a pochi isolati dal porto.
Rimase molti giorni in quella casa, chiusa dentro, senza vestiti e venivano altri uomini a tutte le ore e si mettevano sopra di lei dando poi delle monete al padrone di casa che restava fuori dalla porta e che ogni tanto le portava qualcosa da mangiare.
Con il passare delle settimane si accorse che sentiva qualcosa che si muoveva dentro la pancia.
Lo disse all'uomo ed era spaventata.
Lui la picchiò e la trascinò fuori, gridando che doveva andare via, buttando sulla strada gli stracci che lei usava per coprirsi quando sentiva freddo e non c'erano uomini in attesa. Tornò al suo buco dentro il muro, dormiva a lungo e si sentiva così stanca da non riuscire a muoversi, anche se aveva fame.
Un giorno si svegliò e qualcuno si era arrampicato fino al suo rifugio e la stava guardando.
Era una suora e aveva un vestito bianco che odorava di bucato.
Si chiamava Maria, come me, e aveva cominciato a cercarla tutti i giorni, portandole del cibo, vestiti, qualche moneta, e poi parlava con la sua voce dolce dicendole che quello che si muoveva dentro la sua pancia era un bambino, che doveva lavarsi, mangiare, dormire su un letto al riparo della pioggia e dell'umido dell'inverno.
Lei all'inizio non ascoltava e si girava dall'altra parte per riaddormentarsi in pace ma poi la voce di Suor Maria aveva cominciato a riscaldarla, e si sentiva bene quando le parlava. Un giorno si fece convincere ad andare a vedere il convento e fece un bagno caldo con le suore che le pulivano la pelle con un sapone che aveva lo stesso odore delle lenzuola stese al sole. La asciugarono con grandi teli di cotone e poi le tolsero i pidocchi dalla testa.
Le fecero mangiare brodo caldo di gallina e carne stufata con i piselli e poi si addormentò su un letto con le lenzuola vere.
Quando si svegliò trovò Suor Maria che la guardava sorridendo.