Amelia
era più grande di
me e anche i suoi dolori erano più grandi.
Dietro quegli occhi neri c'erano lacrime che lei riusciva a trattenere
solo
perché aveva capito quasi subito che non servivano a
cambiare il mondo. La strada e le vicissitudini le avevano
insegnato che le persone erano immutabili attraverso il tempo:
causavano dolore e non avevano nulla da dare in cambio.
Non so che cosa
l'avesse convinta che io non ero una di quelle persone, non so da cosa
avesse capito che il vuoto lasciato da mia sorella aspettava solo
di essere colmato e che un altro vuoto mi stava aspettando.
Istintivamente Amelia cominciò a volermi bene, "dal primo
momento" diceva
lei, come se fosse un amore a prima vista.
Era lo stesso
amore di cui aveva un bisogno disperato, da quando era soltanto una
neonata e che mai aveva trovato.
Così fu lei la prima a raccontarsi, forse perché
dei miei dolori sapeva molto
di più di quanto io non sospettassi di sapere.
Una sera piena di pioggia e di solitudine, dopo
che Silvana si era finalmente addormentata, si mise seduta accanto a me
e come se stesse riprendendo un discorso lasciato a metà, mi
raccontò che non aveva mai conosciuto sua
madre perché era morta partorendo.
Suo padre aveva dato la colpa a lei, odiandola dal primo momento, come
se
lei fosse un debito o una malattia e non un dono di Dio.
Era cresciuta sola, per la strada, tra l'immondizia e la violenza delle
persone che incontrava, e soprattutto la violenza di suo padre, colui a
cui Dio aveva assegnato il compito di proteggerla e che invece la
picchiava, senza ragione, solo perché era ubriaco di dolore
e
di vino inacidito.
Era sopravissuta al freddo, alla dissenteria e alla fame
solo perché le donne che abitavano i bassi
del quartiere riuscivano ad avere un po' di
compassione per
quella bambina fatta di ossa e di silenzio e anche perché
probabilmente riconoscevano la stessa violenza che aveva segnato la
loro vita. Le avevano dato a turno il loro latte e
poi
l'avevano
svezzata a pane e cipolla oppure un po' di zuppa fatta con i
resti
di pesce che trovavano rovistando tra l'immondizia, al porto,
dopo il mercato.
C'era sempre qualcosa da
mangiare per lei: bastava che bussasse a una qualsiasi di quelle
porte.
Mentre mi raccontava queste cose, Amelia aveva gli occhi persi
dentro quel mondo così
lontano; la voce a volte si abbassava e diventava quasi un sussurro ma
il dolore si sentiva, forte, fragoroso, come se fosse un grido. Mi
disse sottovoce che quella bambina guardava tutta quella miseria umana
che aveva attorno a sé e si era sempre chiesta come
fosse
possibile che proprio lei avesse la fortuna di avere
così tante madri che si preoccupavano di lei e la sfortuna
di non averne una solo per lei, un posto suo, fatto
di braccia, dove poteva
rifugiarsi quando sentiva male dentro il petto.
Quando si ritrovò le
gambe sporche di sangue e un dolore atroce dentro la pancia, una di
quelle donne si prese la responsabilità di dirle che cosa
stava accadendo. Le disse che da quel momento in poi non ci sarebbe
stato
più nessuno a proteggerla e che sarebbe stato
meglio per lei scegliersi un uomo, uno qualsiasi, uno a cui dare la sua
obbedienza e anche qualche altra cosa che però lei allora
non era riuscita a capire, in cambio di
protezione, di un posto decente dove dormire.
Con voce fredda le disse anche che doveva stare
lontana da suo marito e che quelle che
erano state madri per lei fino a quel momento, le avrebbero
cavato gli occhi, senza pietà, se solo avesse osato
avvicinarsi ai loro uomini. Amelia aveva capito che quel sangue era
qualcosa che stava cambiando la sua vita e la
cambiava in peggio, ma ancora non aveva idea di che cosa davvero
significasse quel cambiamento.
Anche suo padre, quando aveva visto
le macchie di sangue tra le gambe, aveva cambiato la luce dentro agli
occhi, ma era difficile capire, sentiva solo i morsi della carne, nel
basso ventre, e quel sangue così diverso da quello che
usciva
dai tagli o dalle sbucciature e non sapeva cos'altro potesse capitare.
Poi, dopo qualche giorno, tutto era passato e anche il dolore era
andato via per ritornare
una volta al mese, quando la luna si faceva enorme sopra il mare.
Lei
si era accorta che
all'improvviso non c'erano più porte a cui bussare per
chiedere un po' di pane o una cipolla.
Quelle che si erano prese cura
di lei fino ad allora erano ostili, come se non
riconoscessero più quel mucchio di ossa, forse a causa dei
fianchi che si stavano allargando, forse del seno che
stava crescendo a vista d'occhio.
Le donne sapevano molto bene quale pericolo
rappresentassero per loro quelle ossa, la "carne fresca" che le
ricopriva e la scacciavano via con cattiveria.
Amelia chiuse gli occhi, come per richiamare dei ricordi ancor
più dolorosi,
difficili, troppo ingombranti e poi senza guardarmi, mi disse che una
notte in cui suo padre stava riverso tra la
strada e il buco dove vivevano, troppo ubriaco per
arrivare fino al letto, entrò un uomo e si
fermò nel buio poco oltre la soglia.
Lei stava in un
angolo, rannicchiata sopra il pavimento, ad aspettare che suo
padre fosse in grado di alzarsi e mettersi sul letto in modo che lei
potesse finalmente chiudere la porta e addormentarsi sul
pagliericcio, come faceva tutte le sere. Quell'uomo
girò la testa da un lato all'altro nel buio della
stanza e poi si avvicinò a lei prendendola
per i capelli e trascinandola sul letto senza badare alle sue
grida. Senza dire nemmeno una parola si mise sopra di
lei e le spalancò le gambe mettendole anche una mano sulla
bocca. Lei non riusciva a respirare e poi sentì un
dolore forte tra le gambe. Ebbe paura di morire e
restò immobile mentre quell'uomo si muoveva sopra di lei,
schiacciandola e soffocandola, finché con
un grugnito e la bava alla bocca si era girato,
liberandola dal suo peso e dal puzzo nauseabondo.
Era rimasto qualche momento sul letto, accanto a lei, ansimando e
boccheggiando come se non riuscisse più a respirare e poi si
era alzato ed era uscito,
senza parlare, così come era entrato.
Quando alle prime luci del mattino
suo padre si svegliò e riuscì
ad alzarsi, la trovò ancora immobile, sul letto, le gambe
spalancate e ancora un po' di sangue dove quell'uomo le aveva fatto
male. Invece di prendersi cura di lei, si mise a gridare come un pazzo,
dicendo parole
che lei non aveva mai sentito e la picchiò con una violenza
che non aveva mai nemmeno immaginato.
Poi si fece spazio anche lui tra
le sue gambe, sempre gridando e schiaffeggiandola, ma lei non sentiva
più dolore, non sentiva più nulla.
Aveva capito che cosa fosse il
cambiamento di cui aveva parlato quella donna, aveva capito che
significava altro dolore.
Quando suo padre si alzò
e senza guardarla si incamminò verso la strada, lei
uscì dal basso senza nemmeno chiudere la porta.
Prese la strada che arrivava fino al porto, i piedi scalzi e in faccia
i segni delle mani di suo padre.
Non sapeva dove stava andando, non sapeva che cosa avrebbe fatto:
sapeva soltanto che non sarebbe più tornata.
Io la guardavo mentre con
gli occhi chiusi mi stava raccontando quell'orrore e quasi riuscivo
a toccarlo il suo dolore, quasi mi entrava sotto la pelle e mi faceva
rabbrividire di un freddo innaturale che non avevo mai provato, Dentro
di me, in un angolo nascosto e con un poco di vergogna, io ringraziavo
Dio e mio padre per essere stato un uomo giusto e ringraziavo la
Madonna per la fortuna che avevo avuto di nascere in una famiglia e in
una comunità dove la violenza non era così
diffusa, un luogo dove noi ragazze potevamo crescere sognando
il nostro futuro.
Amelia invece era vissuta tra quella violenza, rubando il cibo dalle
bancarelle dei mercati, scappando dai gendarmi, dagli uomini e
dagli altri "scugnizzi".
Dormiva in un buco dentro un muro,
sotto una trave che reggeva il tetto di un magazzino del porto, al
riparo dai topi e dai cani randagi e passava i suoi giorni cercando
cibo per sfamarsi. Aveva scoperto che era facile avere un po' di
formaggio o della frutta se lasciava che gli uomini le mettessero le
mani addosso, anche se a volte
la picchiavano e la mandavano via senza darle nemmeno un pezzo di pane.
Uno di quegli uomini un giorno la
trascinò in un basso che stava a pochi isolati dal porto.
Rimase molti giorni in quella casa,
chiusa dentro, senza vestiti e venivano altri uomini a
tutte le ore e si mettevano sopra di lei dando poi delle monete al
padrone di casa che restava fuori dalla porta e che ogni tanto le
portava qualcosa da mangiare.
Con il passare delle settimane si accorse che sentiva qualcosa che si
muoveva dentro la pancia.
Lo disse all'uomo ed era spaventata.
Lui la picchiò e la trascinò fuori, gridando che
doveva andare via, buttando sulla strada gli stracci che lei usava per
coprirsi quando sentiva freddo e non c'erano uomini in
attesa. Tornò al suo buco dentro il muro, dormiva a
lungo e si sentiva così stanca da non riuscire a muoversi,
anche se aveva fame.
Un giorno si svegliò e
qualcuno si era arrampicato fino al suo rifugio e la stava guardando.
Era una suora e aveva un vestito bianco che odorava di bucato.
Si chiamava Maria, come me, e aveva cominciato a
cercarla tutti i giorni, portandole del cibo, vestiti, qualche moneta,
e poi parlava con la sua voce dolce dicendole che quello che si muoveva
dentro la sua pancia era un bambino, che doveva
lavarsi, mangiare, dormire su un letto al riparo della pioggia
e dell'umido dell'inverno.
Lei all'inizio non ascoltava e si
girava dall'altra parte per riaddormentarsi in
pace ma poi la voce di Suor Maria aveva cominciato a riscaldarla, e si
sentiva bene quando le parlava. Un giorno si fece convincere ad andare
a vedere il convento e fece un bagno caldo con le
suore che le pulivano la pelle con un sapone che
aveva lo stesso odore delle lenzuola stese al sole. La asciugarono con
grandi teli di cotone e poi le tolsero i pidocchi dalla testa.
Le fecero mangiare brodo caldo di gallina e carne stufata con i piselli
e poi si
addormentò su un letto con le lenzuola vere.
Quando si svegliò trovò Suor Maria che la
guardava sorridendo.
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