L'appartamento stava dietro a una
porta in legno scuro, proprio alla fine delle scale in pietra.
Erano due stanze grandi e una
più piccola, messe una di seguito all'altra: la prima era
ingombra di tutte le casse inchiodate a casa mia, a Roma, e nessuno si
era preso la briga di aprirle, nemmeno per vedere se i piatti
fossero ancora tutti interi.
La seconda aveva invece un letto, piccolo, con le
lenzuola, due grandi cuscini e un copriletto di cotone.
L'armadio era stato ricostruito e stava addossato alla parete, vuoto,
con gli sportelli aperti e la polvere che aveva invaso tutti i ripiani.
L'ultima stanza invece era vuota, con la finestra chiusa.
Amelia non aveva detto nulla, mi
aveva seguito mentre passavo in continuazione da una stanza all'altra,
sperando tutte le volte di avere visto male, di avere sognato.
Non era possibile che nessuno
avesse aperto le casse per sistemare la biancheria, i vestiti,
le scarpe e dare una parvenza di casa a quella confusione.
E poi dove saremmo andati a dormire io e Gaetano? Chi aveva pensato
che Silvana potesse dormire da sola in quella stanza grande?
Per un momento mi era sfuggito che
quel letto era invece "il letto per voi" e quando avevo finalmente
capito come stavano le cose, avevo guardato Amelia e lei
aveva gli occhi stretti e le mani dietro la schiena.
Mi ero seduta proprio sopra quel letto, esausta, le lacrime
che mi uscivano dagli occhi come fontane, direttamente collegate con quel
vuoto che sentivo dentro, grande, enorme, molto più grande di me.
Amelia si era subito seduta vicino a me e
mi aveva dato un fazzoletto per le lacrime ma non diceva niente,
ché non c'era in realtà molto da dire.
Dopo qualche minuto si era alzata – Vado a chiamare il Signor Gaetano
– aveva detto ed era uscita, lasciandomi da sola e piena di lacrime.
Avevo provato a ricacciarle indietro ma non era possibile, non ci riuscivo.
Avevo timore che Gaetano sarebbe
arrivato insieme a Silvanella, avevo timore che avrebbe lasciato
Silvanella dalla suocera, dalla sua nonna che appena conosceva, avevo
timore per la creatura che portavo in pancia e più cercavo
di fermarmi, più le lacrime si affollavano e i singhiozzi mi
spezzavano il respiro.
Così mi aveva trovato Gaetano.
– Maria, che ti succede? – aveva
detto appena entrato nella stanza.
Stava in piedi, davanti a me, non
gli era nemmeno venuto in mente di sedersi come aveva fatto Amelia, di
abbracciarmi.
– Ma tu lo vedi come stiamo qua? Lo
vedi che non c'è il letto per dormire? Perché mi
hai fatto venire a Napoli se è ancora tutto da preparare? –
– Calmati Maria –
Mi chiamava Maria
quando mi arrabbiavo con lui per le sue scappatelle con le zoccole,
quando non tornava a casa, quando mi lasciava sola.
– Te l'avevo detto che il
mobiliere non ha ancora finito –
– Si Gaetano ma qualcuno doveva
cominciare a schiodare le casse, mettere la biancheria dentro
l'armadio, organizzare queste stanze –
– Dove dormiamo io e te? Dove
dorme Silvana? Come preparo da mangiare? Dove mangiamo? –
Gaetano si era girato verso la
finestra, fumava una sigaretta e anche questa cosa era una scortesia
che proprio non apparteneva al dolciere che mi preparava il pane al
cioccolato, lui lo sapeva che non lo sopportavo, soprattutto quando ero
in gravidanza.
Stava zitto, guardava qualcosa fuori dalla finestra e fumava.
Io mi guardavo intorno, cercavo Amelia ma lei era andata via e
invece sentivo di aver bisogno di lei, del suo fazzoletto come un
appiglio per non cadere più in basso di quel "letto per voi".
– Gaetano rispondimi per piacere –
I singhiozzi non mi lasciavano
parlare, dovevo aspettare che si calmassero per riuscirci.
– Maria ti devi calmare adesso –
– Non c'è niente di strano –
– Non siamo riusciti a preparare in tempo queste stanze così
per qualche giorno dovrai dormire qui, da sola –
Le sue spiegazioni rimbalzavano
contro la finestra e arrivavano fino a me ma non avevano calore.
– Io dormo al primo
piano, dove ho dormito da quando sono a Napoli e avevo pensato
che Silvanella potesse dormire insieme a me ma se
lo preferisci faccio portare il suo lettino qui, vicino a te –
Parlava sempre girato verso la finestra, esattamente come aveva fatto a Roma
quando mi aveva detto che ci saremmo trasferiti.
Ma ora non avevo più la
forza di combattere, ero straziata da quello che vedevo intorno a me e
avevo troppa paura.
– Amelia ti aiuterà a sistemare tutta la roba e appena il mobiliere avrà montato
il letto tutto sarà a posto, sarà di nuovo tutto
come prima –
– Perché mamma
tua non è venuta a salutarmi? –
Ecco, l'avevo detto finalmente e
lo sapevo perfettamente che quello era il problema, lo avevo sempre
saputo.
– Marié, mamma non si sente tanto bene –
Un'altra volta, ancora, era quasi una
maledizione, sembrava che la sua bocca non riuscisse a dire altro.
Però era passato da "Maria" a
"Marié"
Forse ora potevo sperare di avere anche lui, non solo le sue parole rivolte
verso la finestra, forse sarebbe venuto a sedersi vicino a me, mi
avrebbe preso la mano, mi avrebbe detto che dovevo aver pazienza, che il bar gli aveva occupato
tutto il tempo e non era riuscito a schiodare nemmeno una delle casse,
nemmeno per trovare i suoi vestiti e allora ne aveva comprato uno nuovo, uno alla
moda, attillato, con due bottoni. Forse mi avrebbe addirittura chiamato
"sciu sciu" come faceva dopo che avevamo fatto l'amore e mi teneva tra le braccia a
raccontarmi di quando era bambino e di suo padre, un uomo forte che
piegava gli alberi e aspettava tutte le notti l'amore suo seduto sopra
le pietre e che era morto per mano di un brigante per salvare l'onore
della sua famiglia. Forse mi avrebbe raccontato ancora una volta del
giorno in cui mi vide, di come il cuore aveva preso a battere in modo
strano e lui non era più riuscito a fare niente, aveva
addirittura dimenticato di mettere le uova nell'impasto e si era
inventato un po' di febbre per andare a casa senza riuscire a togliere
dalla testa il pensiero di me e dei miei occhi. Forse mi sarei
svegliata da quel
brutto sogno e ci
voleva poco, bastava cambiare una vocale, metterci un accento, metterci
il cuore, l'anima ché gli esseri umani di cuore e anima
sono fatti.
Invece stava sempre in piedi, voltato verso la finestra, aveva buttato la sigaretta a terra senza
nemmeno spegnerla.
Mi avvicinai, ancora scossa dai
singhiozzi e mi appoggiai proprio con l'anima e il cuore a lui, alla
sua schiena, "anema e core" come diceva lui.
– Ho paura Gaetano – dissi e mentre
lo dicevo sentivo nuove lacrime che nascevano dentro nella pancia.
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