A fine maggio arrivò il momento di partire.
Ero rimasta sola, a Roma, in una casa che si svuotava lentamente di tutti i sogni miei mentre Gaetano, a Poggioreale, organizzava la nostra nuova vita.
Silvana mi chiedeva tutti i giorni quando sarebbe arrivata la sorellina: io le dicevo che suo papà voleva invece un maschio e lei mi guardava un po' imbronciata. Era eccitata per tutte quelle novità, non vedeva l'ora di partire, moriva dalla voglia di vedere il treno, il vulcano, il mare e tutte le meraviglie sconosciute che le raccontavo la sera, per farla addormentare, per addolcire l'assenza prolungata di suo padre, perché bisogna sempre addormentare prima i dolori altrimenti i sogni si perdono per strada.
Io dormivo poco, rimanevo per ore a occhi chiusi, cercavo di sentire il battito del cuore della creatura che mi cresceva dentro mentre tenevo sul mio petto il respiro delicato di quella che dormiva accanto a me. Sembrava che i pensieri non si sarebbero addormentati mai: Napoli, Magliano, mamma, Gaetano e poi Assunta e io quasi la vedevo, i suoi capelli neri, gli occhi che scintillavano nel buio. Forse, in quel preciso istante, lei stava sussurrando a una bambina che assomigliava a Palma, le favole che servono per dare il benvenuto ai sogni, forse le stava raccontando di un fienile, di un banco con gli attrezzi da lavoro, di mani strette come appigli, di occhi chiusi, di sospiri...
Poi, nel buio della notte, io le chiedevo anche perdono, chiedevo a Dio di prendere in consegna i miei pensieri e farli cadere come una pioggia fine su tutta quell'America lontana in modo che potessero raggiungerla nel posto sconosciuto in cui si era nascosta per non sentire più il dolore, lo stesso dolore che sentivo io, quello che non si addormentava mai. Pensavo con terrore che Assunta non avrebbe trovato più nessuno a cui raccontare che cosa era accaduto, quale ferita le aveva impedito di scrivere, gridare, chiedere aiuto; nessuno che le raccontasse di come mamma si fosse poi ammalata di malinconia, della sua morte, del vuoto che sentivo dentro al cuore.
Poi il sonno riusciva a vincere i pensieri ma a volte mi svegliavo poco dopo, di soprassalto, il cuore che batteva troppo forte ed ero spaventata, e sola.
Invece è indispensabile avere accanto qualcuno pronto a raccogliere le lacrime, qualcuno in grado di convincerti che il buio scappa via, che basta aprire gli occhi.
Io avevo solo mia figlia, soltanto lei, per addolcire la paura.
Così passava il tempo e ogni settimana venivano degli uomini con assi di legno che una volta inchiodate ingoiavano i miei vestiti, i piatti, le lenzuola.
Smontarono anche l’armadio, lasciarono soltanto il letto e la cassapanca con un po' di biancheria.
La casa diventava sempre più grande, sempre più vuota e nel frattempo mi cresceva anche la pancia.
Il sabato prima di partire lasciai Silvana a una vicina e andai a salutare zia Ata: lei era tutto quanto restava della mia famiglia.
Volevo chiederle perdono per tutto quello che aveva dovuto sopportare per causa mia, dirle che le volevo bene.
Non la vedevo da più di un anno e la trovai seduta al tavolo della cucina ma non assomigliava nemmeno lontanamente a quella donna forte e risoluta che a quello stesso tavolo aveva detto basta a grida e lacrime per la mia gravidanza inaspettata.
Era invecchiata, aveva i capelli completamente bianchi che le arrivavano alle spalle e tutta la casa era in disordine.
Aveva addosso una vestaglia lisa e piena di macchie e io sentivo cattivo odore, odore di sporco, odore di cibo andato a male.
Era in difficoltà, disorientata; sembrava non sapere cosa fare e si guardava intorno, quasi smarrita, come se facesse fatica a mettere a fuoco gli oggetti, le persone.
Mi preparò il caffè ma si era dimenticata di mettere l’acqua nella cùccuma così l'odore acre di bruciato si aggiunse all'aria stantìa dentro la casa.
Mi alzai per spalancare le finestre, le dissi che avrei chiamato subito qualcuno per dare una pulita a fondo a tutta la casa, le dissi che non poteva rimanere sola.
Si rivoltò contro di me gridando che stava bene e che non aveva bisogno di nessuno e tanto meno di me.
Disse che lo sapeva bene che la notte le rubavo i soldi e che per questo lei non dormiva mai e nascondeva la borsa con tutti i suoi gioielli.
– Non la troverete mai – disse e aveva gli occhi persi dentro un mondo che apparteneva solo a lei.
– Quando torna Severo, gli dico di chiamare la Gendarmeria –
Poi mi cacciò letteralmente da casa sua e io rimasi a piangere fuori alla porta ed era un altro pezzo della mia vita che si polverizzava senza che fosse possibile porvi rimedio. Lasciai dei soldi alla custode del palazzo insieme al numero del telefono pubblico di Poggioreale.
La donna mi aveva guardato come si guarda il vuoto e aveva messo soldi e bigliettino in una tasca del suo grembiule.
Ero sicura che non avrebbe fatto nulla, che non mi avrebbe mai chiamato, nemmeno se zia Ata fosse morta.
Non fu un commiato facile; quella città che avevo tanto amato sembrava essersi sgualcita, sembrava non essere più adeguata ai sogni che mi avevano cullato.
Eppure erano passati soltanto pochi anni.
Passai dalla pasticceria, comprai il pane al cioccolato, mi era rimasta voglia di caffè e poi cercavo un po’ di quel profumo che aveva reso dolce la mia vita.
Troppi ricordi sparsi tra quei tavolini, troppe persone che si affollavano a pochi passi dalla mia tristezza.
Tornai a casa o almeno a quel poco che era rimasto di casa mia e avevo il cuore che mi faceva male, "o core ind'è cazette" come diceva sempre Gaetano.
Lasciai Silvana ancora un po' dalla vicina e presi la scatola di latta che conteneva i miei ricordi di bambina, le foto di mio padre, di mia madre, le loro fedi nuziali, i bigliettini che Gaetano metteva dentro i dolci.
Tutto era doloroso. Tutto parlava di una vita che si stava allontanando, inesorabilmente.
Potevo solo chiudere il coperchio e respirare, cercando di mandare via le lacrime e la paura.
Poi arrivò il momento di partire.
Nell'automobile, andando alla stazione, pensavo alla ragazza che anni prima era arrivata da Magliano; con gli occhi la cercavo lungo le strade di quella città dove lasciavo una gran parte del mio cuore.
Avrei dato chissà cosa per vederla, solo per un istante, mentre da sola camminava verso un destino ancora tutto da sognare.
Avevo un gran bisogno delle sue certezze, della fiducia che il futuro potesse solo essere uguale ai sogni perché chi non ha sogni non può sperare nel futuro.


Napoli mi accolse con l’odore di salsedine portata da un vento caldo che arrivava dal mare.
Scesa dal treno, feci un respiro profondo per fare uscire la fuliggine e incamerare quel profumo.
Poi mi fermai ad ascoltare le grida dei verdurai e degli acquaioli.
Silvana era spaventata da quella confusione e voleva stare in braccio a me ma quando vide suo padre si dimenticò di tutto quanto e si rifugiò tra le sue braccia.
Fuori alla piazza, Gaetano aveva fermato una vettura e il breve percorso lungo le strade affollate mi aveva fatto assaggiare gli altri odori, le grida, i mendicanti, i bambini seminudi che inseguivano cani randagi e gli uomini davanti alle taverne che osservavano la folla senza apparentemente avere nient’altro da fare.
Cominciai a fare conoscenza con il dialetto stretto che tutti parlavano e che non aveva niente a che vedere con la cadenza quasi elegante a cui Gaetano mi aveva abituato.
Era comunque un mondo nuovo che mi riempiva gli occhi e mentre Silvana si teneva stretto suo padre io proprio non riuscivo a mandare via il senso di vuoto che avevo dentro il cuore, proprio non ero in grado di rassicurare la mia anima.
Sentivo Gaetano vivere una realtà che non mi contemplava e questo mi faceva sentire tremendamente sola.
Lui sembrava assorto, quasi assente.
Mi aveva chiesto solo se ero stanca e poi, lungo il tragitto, aveva detto che la casa non era lontana, che saremmo arrivati presto.
– Marié, la casa è ancora da sistemare – aveva aggiunto, come se fosse una cosa di poco conto.
– Mamma ha chiamato la Signora Amelia per darci una mano –
– L’importante è che ci sia il letto – avevo risposto io, quasi scherzando, come se fosse l’ultima cosa che potesse capitare.
Aspettavo la sua risata o uno dei tanti detti napoletani a cui Gaetano mi aveva abituato e che spesso riuscivano a dare luce a ogni questione.
Invece stava zitto, lo sguardo quasi strafottente e sorrideva solo a nostra figlia.
Stavo zitta anch'io, guardavo il suo vestito a righe, un po' troppo attillato, il suo cappello nuovo.
Sembrava un'altra persona, era ingrassato e forse aveva anche cambiato l'acqua di colonia perché non riconoscevo più il suo profumo: non era lo stesso di prima, era troppo forte, troppo marcato, sembrava quasi traboccare e appiccicarsi a tutto quello che gli passava accanto.
Più lo guardavo e più sentivo che c'era qualcosa di stonato in quello che vedevo, qualcosa di diverso e quella sensazione mi metteva una gran paura.
"Stai calma Maria, sei troppo stanca, non è successo nulla" stavo dicendo dentro di me quando la carrozza si fermò.
La casa della suocera era di fianco a me, quasi addossata a una collina, chiusa da muri bassi e siepi di alloro e rosmarino.
Un grande albero di mele stava di lato a dare ombra a tutto il giardino mentre dall'altra parte c'era il vialetto che conduceva a una scalinata in pietra.
Sopra le scale, davanti alla porta, c'era una donna giovane con i capelli neri e una lunga veste scura macchiata dal bianco candido di un grembiule.
Il vetturiere scese dal suo predellino e stava di lato alla carrozza tenendo strette le briglie dei cavalli.
Poi si avvicinò e fece la cortesia di aiutarmi a scendere visto che Gaetano si era già avviato verso la casa con Silvanella in braccio.
Io mi ritrovai da sola, il mio bagaglio in terra, intorno a me solo la polvere alzata dai cavalli.
Guardavo la casa, guardavo il giardino e poi mi giravo a guardare anche la strada.
Cercavo la suocera perché ero sicura che sarebbe venuta a salutarmi.
Durante tutto il viaggio e nelle settimane prima della mia partenza avevo pensato a quel momento, avevo studiato come nascondere dal viso il mio stupore per la sua assenza al matrimonio, al battesimo di Silvana e alle sue visite improvvise, proprio quando io ero a Magliano a sotterrare i morti.
Mi ero infine quasi convinta che Gaetano non nascondesse chissà quali verità quando diceva che sua madre non si sentiva bene.
Eppure erano state tante le volte in cui doveva arrivare e non arrivava o che dovevamo andare a Napoli e non ci andavamo.
"Marié, mamma non si sente tanto bene"
Io restavo pensierosa e piena di dubbi ma ora non potevano più esserci i dubbi, ora la suocera doveva essere dietro il cancello, sotto quell'albero o sulle scale.
Invece non c'era nessuno e questo mi stupiva, prima ancora di farmi male al cuore.
Gaetano era già sparito dentro la casa e non potevo chiedere nemmeno a lui di accogliermi come si deve, in quel posto sconosciuto, in una città così lontana da tutto quello che era stata la mia vita fino a quel pomeriggio di fine maggio del millenovecentoventisei.
Mi ero completamente persa dentro questi pensieri e non mi ero accorta che nel frattempo la donna che stava sopra le scale era davanti a me e mi stava guardando.
– Avete fatto un buon viaggio? –
Aveva gli occhi neri come la pece e le labbra erano strette come se dovessero trattenere le parole per non farle scivolare fuori.
Non sembrava stupita del mio smarrimento ma forse era solo un'impressione.
– Sono Amelia e sono al vostro servizio –
Notai che in realtà non era così giovane come mi era sembrata in lontananza: le piccole rughe intorno agli occhi erano le stesse che io cercavo di nascondere tutti i giorni con il talco all'Olio di Rosa.
Io stavo ancora zitta e immobile e così lei senza scomporsi, prese da terra il mio bagaglio e si avviò verso la casa.
Prima di entrare si fermò ad aspettarmi.
Io feci un respiro, di quelli che dovevano servire a far uscire tutto il male che si sente dentro il petto, quelli che servono per cominciare un'altra volta a vivere.
Mi ero girata un'altra volta a guardare la carrozza che si era mossa e lentamente si allontanava lungo la via.
Poi ero riuscita finalmente a muovermi dal fosso nel quale ero caduta e avevo raggiunto Amelia sopra le scale.
Avrei potuto chiedere a lei: forse mi avrebbe detto che la suocera stava semplicemente aspettando dentro la casa o forse avrebbe detto che "non si sentiva tanto bene". C'erano troppi pensieri, troppo stupore per azzardarmi a dire qualsiasi cosa così restai in silenzio fermandomi alla fine delle scale.
Amelia mi guardava, come se stesse aspettando una mia parola per entrare dentro la casa.
Poi fece per muoversi ma si bloccò subito dopo e a voce bassa disse che l'appartamento non era ancora pronto.
Lo disse come se fosse un peso che si doveva proprio togliere prima di entrare.
– Gaetano mi ha avvertito – avevo risposto e avevo cercato di sorridere senza riuscirci.
– Il mobiliere non ha ancora finito ma ho preparato il letto per voi –
Amelia aveva gli occhi stretti sempre puntanti dentro i miei.
Era rimasta immobile, come se dovesse riprendere il respiro dopo uno sforzo troppo grande. Poi era entrata nella casa.
"Il letto per voi"
Quelle parole si erano infilate come una spina proprio nel centro di quella tempesta di pensieri che ormai non riuscivo più a tenere a bada.
Forse avevo capito male, forse ero troppo stanca così cercai di scacciare via tutti i pensieri e entrai.
Dentro la casa mi accolse la penombra di una grande stanza che stava subito dopo la porta di ingresso.
C'era un divano con i cuscini ricamati e una credenza in legno antico.
Un tavolo era addossato alla parete con sedie impagliate e tutto era perfettamente in ordine, pulito.
In fondo, la stanza finiva con una scalinata in pietra mentre a sinistra, una grande porta in legno scuro, chiudeva probabilmente l'accesso alle cucine.
Mi guardai intorno, cercavo mia figlia, cercavo Gaetano ma c'era soltanto il silenzio ed era fermo, immobile.
In quella casa non c'erano rumori, non c'erano odori: sembrava che i muri spessi fossero stati costruiti apposta per tenere fuori il sole e il vento che scendeva giù dalla collina portando il polline dei faggi insieme all'odore delle rose.
Amelia si era fermata un'altra volta e mi guardava, forse cercava di capire i miei pensieri, forse era in attesa del mio benestare per proseguire verso l'appartamento, quello che Gaetano mi aveva raccontato tante volte nei lunghi mesi in cui ero rimasta sola, a Roma.
Ogni giovedì lui mi chiamava al telefono pubblico.
Io stavo zitta e lui tutte le volte era un fiume in piena: il bar in Corso Garibaldi, l'appartamento e il mobiliere che stava costruendo il nostro letto in noce massiccio.
Poi il copriletto di cotone che una donna nel secolo passato aveva tessuto a mano e che sua madre, la suocera invisibile, aveva promesso a lui e alla sua futura sposa quando lui era ancora era un ragazzo.
Verso la fine mi chiedeva di Silvana e si faceva bastare le poche parole che io riuscivo a dire.
"Vedrai Marié che bella vita che farai" diceva ogni volta che doveva salutarmi perché era finito il tempo o perché aveva da fare.
Dopo ogni diluvio di parole, restavo seduta per qualche minuto con la cornetta muta sempre appoggiata sulla guancia.
Dovevo ogni volta ricacciare le lacrime dentro negli occhi per non farmi vedere dall'impiegato dei Telefoni che mi usava tutte le volte la cortesia di allontanarsi.
– Vostro marito probabilmente è nelle stanze della Signora –
Amelia aveva spezzato quei pensieri, era riuscita a leggere il mio smarrimento, si era avvicinata e mi guardava.
– Se volete posso chiamarlo –
– No – la voce mi era uscita troppo forte e allora respirai e ricominciai da capo, cercando di aggiungere un sorriso che però dovevo pescare troppo in profondità dentro al mio cuore.
– No Amelia, grazie. Andiamo a vedere l'appartamento per favore –
Amelia fece un cenno con la testa stringendo gli occhi come aveva fatto prima, sulla porta, forse per avvisarmi che la parte più dolorosa mi stava ancora aspettando.


L'appartamento stava dietro a una porta in legno scuro, proprio alla fine delle scale in pietra.
Erano due stanze grandi e una più piccola, messe una di seguito all'altra: la prima era ingombra di tutte le casse inchiodate a casa mia, a Roma, e nessuno si era preso la briga di aprirle, nemmeno per vedere se i piatti fossero ancora tutti interi.
La seconda aveva invece un letto, piccolo, con le lenzuola, due grandi cuscini e un copriletto di cotone.
L'armadio era stato ricostruito e stava addossato alla parete, vuoto, con gli sportelli aperti e la polvere che aveva invaso tutti i ripiani.
L'ultima stanza invece era vuota, con la finestra chiusa.
Amelia non aveva detto nulla, mi aveva seguito mentre passavo in continuazione da una stanza all'altra, sperando tutte le volte di avere visto male, di avere sognato.
Non era possibile che nessuno avesse aperto le casse per sistemare la biancheria, i vestiti, le scarpe e dare una parvenza di casa a quella confusione.
E poi dove saremmo andati a dormire io e Gaetano? Chi aveva pensato che Silvana potesse dormire da sola in quella stanza grande?
Per un momento mi era sfuggito che quel letto era invece "il letto per voi" e quando avevo finalmente capito come stavano le cose, avevo guardato Amelia e lei aveva gli occhi stretti e le mani dietro la schiena.
Mi ero seduta proprio sopra quel letto, esausta, le lacrime che mi uscivano dagli occhi come fontane, direttamente collegate con quel vuoto che sentivo dentro, grande, enorme, molto più grande di me.
Amelia si era subito seduta vicino a me e mi aveva dato un fazzoletto per le lacrime ma non diceva niente, ché non c'era in realtà molto da dire.
Dopo qualche minuto si era alzata – Vado a chiamare il Signor Gaetano – aveva detto ed era uscita, lasciandomi da sola e piena di lacrime.
Avevo provato a ricacciarle indietro ma non era possibile, non ci riuscivo.
Avevo timore che Gaetano sarebbe arrivato insieme a Silvanella, avevo timore che avrebbe lasciato Silvanella dalla suocera, dalla sua nonna che appena conosceva, avevo timore per la creatura che portavo in pancia e più cercavo di fermarmi, più le lacrime si affollavano e i singhiozzi mi spezzavano il respiro.
Così mi aveva trovato Gaetano.
– Maria, che ti succede? – aveva detto appena entrato nella stanza.
Stava in piedi, davanti a me, non gli era nemmeno venuto in mente di sedersi come aveva fatto Amelia, di abbracciarmi.
– Ma tu lo vedi come stiamo qua? Lo vedi che non c'è il letto per dormire? Perché mi hai fatto venire a Napoli se è ancora tutto da preparare? –
– Calmati Maria –
Mi chiamava Maria quando mi arrabbiavo con lui per le sue scappatelle con le zoccole, quando non tornava a casa, quando mi lasciava sola.
– Te l'avevo detto che il mobiliere non ha ancora finito –
– Si Gaetano ma qualcuno doveva cominciare a schiodare le casse, mettere la biancheria dentro l'armadio, organizzare queste stanze –
– Dove dormiamo io e te? Dove dorme Silvana? Come preparo da mangiare? Dove mangiamo? –
Gaetano si era girato verso la finestra, fumava una sigaretta e anche questa cosa era una scortesia che proprio non apparteneva al dolciere che mi preparava il pane al cioccolato, lui lo sapeva che non lo sopportavo, soprattutto quando ero in gravidanza.
Stava zitto, guardava qualcosa fuori dalla finestra e fumava.
Io mi guardavo intorno, cercavo Amelia ma lei era andata via e invece sentivo di aver bisogno di lei, del suo fazzoletto come un appiglio per non cadere più in basso di quel "letto per voi".
– Gaetano rispondimi per piacere –
I singhiozzi non mi lasciavano parlare, dovevo aspettare che si calmassero per riuscirci.
– Maria ti devi calmare adesso –
– Non c'è niente di strano –
– Non siamo riusciti a preparare in tempo queste stanze così per qualche giorno dovrai dormire qui, da sola –
Le sue spiegazioni rimbalzavano contro la finestra e arrivavano fino a me ma non avevano calore.
– Io dormo al primo piano, dove ho dormito da quando sono a Napoli e avevo pensato che Silvanella potesse dormire insieme a me ma se lo preferisci faccio portare il suo lettino qui, vicino a te –
Parlava sempre girato verso la finestra, esattamente come aveva fatto a Roma quando mi aveva detto che ci saremmo trasferiti.
Ma ora non avevo più la forza di combattere, ero straziata da quello che vedevo intorno a me e avevo troppa paura.
– Amelia ti aiuterà a sistemare tutta la roba e appena il mobiliere avrà montato il letto tutto sarà a posto, sarà di nuovo tutto come prima –
– Perché mamma tua non è venuta a salutarmi? –
Ecco, l'avevo detto finalmente e lo sapevo perfettamente che quello era il problema, lo avevo sempre saputo.
– Marié, mamma non si sente tanto bene –
Un'altra volta, ancora, era quasi una maledizione, sembrava che la sua bocca non riuscisse a dire altro.
Però era passato da "Maria" a "Marié"
Forse ora potevo sperare di avere anche lui, non solo le sue parole rivolte verso la finestra, forse sarebbe venuto a sedersi vicino a me, mi avrebbe preso la mano, mi avrebbe detto che dovevo aver pazienza, che il bar gli aveva occupato tutto il tempo e non era riuscito a schiodare nemmeno una delle casse, nemmeno per trovare i suoi vestiti e allora ne aveva comprato uno nuovo, uno alla moda, attillato, con due bottoni. Forse mi avrebbe addirittura chiamato "sciu sciu" come faceva dopo che avevamo fatto l'amore e mi teneva tra le braccia a raccontarmi di quando era bambino e di suo padre, un uomo forte che piegava gli alberi e aspettava tutte le notti l'amore suo seduto sopra le pietre e che era morto per mano di un brigante per salvare l'onore della sua famiglia. Forse mi avrebbe raccontato ancora una volta del giorno in cui mi vide, di come il cuore aveva preso a battere in modo strano e lui non era più riuscito a fare niente, aveva addirittura dimenticato di mettere le uova nell'impasto e si era inventato un po' di febbre per andare a casa senza riuscire a togliere dalla testa il pensiero di me e dei miei occhi. Forse mi sarei svegliata da quel brutto sogno e ci voleva poco, bastava cambiare una vocale, metterci un accento, metterci il cuore, l'anima ché gli esseri umani di cuore e anima sono fatti.
Invece stava sempre in piedi, voltato verso la finestra, aveva buttato la sigaretta a terra senza nemmeno spegnerla.
Mi avvicinai, ancora scossa dai singhiozzi e mi appoggiai proprio con l'anima e il cuore a lui, alla sua schiena, "anema e core" come diceva lui.
– Ho paura Gaetano – dissi e mentre lo dicevo sentivo nuove lacrime che nascevano dentro nella pancia.