Ai primi di Febbraio Tina trovò Amelia morta nel suo letto.
L’esercito dei santi che aveva pregato per tutta la sua vita, aveva concesso infine la morte più dolce che si potesse augurare.
Si era addormentata la sera prima e aveva ancora il mano il suo rosario di granati.
Donna Clotilde, come se la notizia fosse arrivata in qualche modo nel limbo oscuro dove viveva, cominciò ad emettere un sibilo insistente dalla gola.
Il medico arrivò e con aria preoccupata disse che i suoi polmoni stavano cedendo, che non c’era più molto da fare.
Maria Domenica si mise un vestito scuro e pettinò i suoi capelli neri con la crocchia. 
Fece chiamare l’avvocato e lo pregò di inviare un messaggio ai suoi fratelli con il telegrafo.
Prese la poltroncina e si sedette accanto al grande letto, cercando di trovare dentro di sé tracce di quel terrore spaventoso che da bambina sentiva quando immaginava la morte di sua madre, trovando solo un poco di pietà per quella donna vecchia piena di piaghe e di cattivi odori.
Restò seduta giorno e notte mentre la vita intorno a quella casa aveva il suo normale corso e Tina le portava una tazza di brodo o camomilla dicendole che doveva riposare, che sarebbe restata lei a vegliare quel respiro faticoso e il sibilo che diventava sempre più denso, sempre più insopportabile.
Maria Domenica pensava alla vita che stava crescendo dentro la sua pancia e poi alla morte che invece passeggiava in quella stanza pronta a portarsi via le sue radici, i suoi ricordi di bambina, i pochi abbracci che sua madre aveva concesso a lei, la più sfortunata delle figlie, quella che aveva dovuto rinunciare alla sua vita per arrivare esausta a quel traguardo di corruzione e morte della carne senza aver vissuto niente altro che riflessi.
Aveva un guazzabuglio di emozioni che si agitava in quel suo corpo di donna ormai matura.
Doveva anche pensare a quella gravidanza che a breve sarebbe stata così evidente da non potere più nasconderla come aveva provato a fare fino ad allora.
I seni erano cresciuti e la sua nausea non era passata inosservata. Tina la guardava e lei sentiva il suo sguardo entrare fin dentro le sue viscere.
Moriva dalla voglia di confidarsi con lei ma come poteva dirle che era Enrico, suo nipote, il padre del bambino che le cresceva dentro?
Enrico era un capriccio, era la possibilità di assaporare quei piaceri della carne che a lei erano negati da una consuetudine feroce.
Non poteva essere altro, in nessun caso e gli altri uomini che erano passati dalla sua casa, gli amici dei fratelli o i praticanti dell’avvocato, non avevano mai osato alzare lo sguardo sui suoi occhi. Tutti sapevano che la sua vita era legata a doppio filo a quell’insieme di carne dolorante che stava di fianco a lei e ancora respirava anche se con un rumore che toglieva il sonno portando il terrore della morte e della corruzione.
No, non poteva essere Tina la sua confidente, non poteva confessare a nessuno chi fosse il padre del bambino, nemmeno Enrico, nemmeno Gennaro Paglia, che pure ne era il nonno, nemmeno Nina, sua sorella. Avrebbe dovuto confessare debolezze, fragilità ma anche amore e desiderio e questo no, non era possibile. Restava solo Dio e forse la morte di sua madre era un suo segnale.
“Dio, ti prego, dimmi che cosa devo fare.
Questa creatura non è il frutto del peccato ma è il risarcimento per il vuoto che mi hai imposto, lasciandomi da sola ad affrontare un mondo fatto di uomini che uccidono, si inventano le guerre oppure danzano imbellettati ma sempre uomini sono e io invece sono donna e sono fragile e non ho la forza per fare tutto quello che faccio, tutto quello che ho fatto senza fermarmi mai neppure ad asciugare le mie lacrime.
Ho fatto la tua volontà e quella di questa crudele condizione e la mia colpa è stata solo quella di essere l’ultima nata.
Quale castigo meritano le colpe degli altri? Quale castigo hai riservato a quelli che hanno sgozzato il padre mio lasciandomi senza il suo odore e senza l’idea che un uomo possa amare oltre che essere amato e obbedito?
Mio Dio ti prego, non mi lasciare sola ché sola non riesco a vivere e non mi sono di conforto le pietre, i campi, gli animali che stanno intorno a me.
Ci vogliono persone, ci vogliono figli da abbracciare e uomini che possano portarsi via le voglie e i desideri perché se non si spengono, le voglie e i desideri diventano paura, solitudine“


Donna Clotilde morì smettendo semplicemente di respirare.
Nina e Teresa, cominciarono a sentirsi male e a piangere disperate sorrette da mariti che avevano passato tutto il tempo a valutare con occhio attento case e terreni per farsi i conti di quanto avrebbero incassato da quel teatrino rivoltante.
Giacomo, il primogenito, era rimasto chiuso dentro un dolore che a Maria Domenica era sembrato autentico.
Lui era l’unico che aveva continuato ad informarsi su come stavano le cose, quanta fatica le costava gestire il patrimonio di famiglia.
Giacomo era stato quasi un padre per lei e vederlo trattenere a stento le lacrime fu altro dolore.
Tonino e Raffaele, invece, erano sconosciuti che avevano il suo stesso cognome e lo stesso sangue nelle vene.
Stavano aspettando di seppellire quella carne per poi passare all’incasso senza mostrare il minimo dolore per quello che stava accadendo.
Maria Domenica osservava i suoi fratelli e si sentiva sempre più sola, sempre più incapace di trovare vie d’uscita per la sua situazione.
La madre fu seppellita nella cappella di famiglia al cimitero di Giugliano, vicino a suo marito, vicino alla calce ancora fresca che chiudeva la tomba di sua sorella Amelia. I vivi andarono via prima di sera e le carrozze scomparvero dentro la pioggia lasciando un silenzio che a Maria Domenica sembrava un luogo celestiale. Quando si ritirò nella sua camera, esausta di lacrime e di paura, vide Enrico in piedi, sotto la pioggia.
Fece un sospiro e chiuse la finestra e seppe che non sarebbe riuscita più ad aprire mai nessun’altra finestra.
Due settimane più tardi, fu aperto il testamento presso lo studio dell’Avvocato.
Maria Domenica ebbe la casa di Giugliano insieme ai terreni circostanti.
Gli altri terreni ed i frutteti erano stati lasciati in egual misura a tutti i fratelli ma una clausola stabiliva che la gestione doveva essere lasciata a Maria Domenica e che lei poteva disporre anche la vendita senza che fosse necessario l’accordo con gli altri fratelli.
Il marito di Teresa fece una scenata una volta finita la lettura e dopo aver firmato i verbali e le scartoffie.
A voce alta e con tono indisponente diceva che era uno scandalo che a loro fosse stato dato solo l’appartamento di via Toledo e che i frutteti dovevano essere venduti e il ricavato andava suddiviso in egual misura tra i fratelli.
– Noi tutti ci fidiamo di Maria Domenica – aggiunse con voce alterata e falsa. 
– Ma come mai lei ha avuto la parte maggiore? –
Giacomo si alzò e si avvicinò a Teresa nascosta dietro la veletta e il cappellino.
– Di a tuo marito che prima di parlare di Maria Domenica si deve sciacquare la bocca con l’aceto e solo dopo, forse, potrà nominare tua sorella –
Aveva scandito le parole in modo che tutti potessero sentire senza possibilità di fraintendimenti.
Non aspettò risposte: nel gelo che era sceso in quella stanza si volse verso Maria Domenica e gli offrì il braccio per uscire e incamminarsi alla carrozza che li avrebbe riportati a casa.

Nei giorni successivi Maria Domenica si rese conto che sentiva la fatica come non le era mai capitato prima.
Dormiva profondamente come se il mondo si spegnesse completamente ed era una sensazione nuova, che non aveva mai provato.
Era difficile levarsi dal caldo del suo letto: lasciava che tutti cominciassero le attività e poi si alzava.
Cercava di non badare agli sguardi delle donne, Tina compresa, e ogni tanto spariva in casa e si rifugiava negli appartamenti al primo piano.
Aveva chiuso le camere che avevano utilizzato sua madre e zia Amelia; aveva fatto pulire a fondo quelle che erano state aperte per ospitare i suoi fratelli e aveva svuotato la piccola camera, quella di Maria Luisa, lasciando soltanto la sedia a dondolo, quella di vimini, quella che sua madre usava quando voleva stare sola e si chiudeva dentro quella che allora era una stanza di lavoro.
Sembrava ancora di vederla con i suoi lunghi abiti e il ventaglio sempre legato al polso.
Maria Domenica si nascondeva dietro alla porta e aspettava che si riaprisse per rifugiarsi tra le sue braccia e dondolarsi insieme a lei.
Le piaceva così tanto tornare in quella stanza, passava lunghi momenti nella penombra, chiudeva gli occhi e assaporava la nuova capacità di non avere più pensieri ad affollare la sua testa. Si dondolava o forse cominciava già a cullare la creatura che aveva nel suo ventre, la porta chiusa a chiave, proprio come sua madre.

Una notte si svegliò di soprassalto.
Qualcosa aveva frantumato il sonno profondo che la gravidanza le aveva regalato: era un odore o un rumore inconsueto, qualcosa che aveva risvegliato i sensi prima di svegliare lei.
Era ancora buio e gli occhi fecero fatica a mettere a fuoco quello che aveva intorno e non riusciva a muoversi perché il terrore era arrivato senza apparente motivo e rendeva rigido il suo corpo.
Poi si rese conto di quello che stava accadendo e fu anche peggio.
In piedi di fianco al letto c’era Armando e la sua stazza riempiva gran parte della visuale.
Maria Domenica sgranò gli occhi e fece per chiedere a quell’uomo corpulento che cosa mai facesse in camera sua.
Appena aprì la bocca, l’uomo mise una delle sue mani enormi sulla sua faccia, chiudendo bocca e naso così che respirare divenne faticoso.
Ancora non era chiaro che cosa stesse accadendo e poi Maria Domenica da quando era incinta, aveva i sensi intorpiditi, faceva una cosa alla volta, pensava lentamente, guardava a lungo le cose per incamerarle piano, senza affannarsi mai.
Armando invece, sempre premendo la mano sulla faccia, prese con l’altra mano la sua camicia da notte e con un solo gesto la strappò via lasciando nudo il suo corpo, i seni, il ventre ed un terrore che lei non aveva mai provato prima di allora.
Maria Domenica ebbe la percezione netta del pericolo mortale. Aveva visto tutti i mezzadri senza parole quando aveva cominciato a presentarsi in compagnia di quell’uomo massiccio e silenzioso e aveva notato che nessuno più si era permesso trucchi o finte dimenticanze.
Rimase immobile mentre lui mise la mano libera prima sul collo, stringendo un poco, come a far capire che con facilità l’avrebbe spezzato, passando poi sui seni e indugiando a lungo sui capezzoli che rispondevano suo malgrado alla sollecitazione.
Poi spostò la mano tra le gambe e infilò con forza un dito nelle sue viscere come a valutare dimensioni e possibilità.
Maria Domenica aveva chiuso gli occhi, non sopportava di guardare diritto quello stupro, doveva sopportare le sue dita, i suoi capezzoli induriti e il respiro che attraversava quelle dita prima di arrivare ai suoi polmoni.
Non poteva guardare dentro gli occhi chi stava violando la sua vita con la facilità con cui si affondano le mani dentro il caglio.
Usando sempre la stessa mano, Armando aveva allargato le sue gambe e poi senza mai smettere di guardarla aveva slacciato fili e cinghie lasciando cadere i pantaloni. Tolse la mano dalla faccia spostandola sul collo stringendo forte in modo da non lasciare la libertà di movimento.
Salì sul letto, si insinuò tra le sue gambe ed infilò il suo sesso nelle  viscere, senza ritegno alcuno, nello stesso modo in cui aveva infilato il dito.
Maria Domenica fu sopraffatta dall’orrore e con la certezza che sarebbe stata l’ultima cosa che poteva fare in vita sua gridò con quanto fiato aveva in gola. Armando si bloccò e strinse la gola della donna riuscendo a strozzare le sue grida e mentre Maria Domenica annaspava alla ricerca del respiro lui continuava a muoversi dentro di lei fino a raggiungere il piacere e allentando, ma solo di poco, la sua presa.
Dopo qualche momento si spalancò la porta della camera.
Enrico aveva sentito il grido. Aveva percorso il passaggio segreto con il cuore in gola.
Rimase per un attimo bloccato sulla soglia, sorpreso da quello che vedevano i suoi occhi.
Armando aveva ancora la mano stretta intorno al collo, era supino, ancora tra le gambe della donna e si girò a guardarlo con un’espressione vaga, quasi come se non lo riconoscesse.
Dopo quell’attimo di esitazione Enrico si lanciò gridando e spinse l’uomo con quanta forza aveva in corpo.
Armando però aveva già messo le gambe sul pavimento e fu come provare a spingere un muro fatto di pietre.
Poi fece un gesto rapido, improvviso, come un soffio di vento.
Enrico vide soltanto la fine di quel gesto, la lunga lama stretta nel pugno chiuso, le gocce di sangue sulle lenzuola candide.
Cercò di respirare ma l’ultima cosa che sentì fu un gorgoglio che proveniva direttamente dalla gola.
Armando legò i suoi pantaloni e uscì dalla finestra saltando pesantemente nel cortile.
Rimase un attimo stordito e dolorante e poi si mise a correre nel buio.
Tina arrivò qualche secondo dopo trovando sangue che inondava il letto e il pavimento.
Maria Domenica guardava il corpo esanime di Enrico, gli occhi sbarrati, la bocca aperta come se il grido che doveva uscire si fosse congelato qualche centimetro dietro la sua gola.

– Il frutteto di Monteleone fu un lascito di Don Gesualdo Santi che era rimasto vedovo e senza figli –
Tina era seduta sotto il porticato, gli occhi fissavano un punto indefinito, sopra il tavolo, tra la teiera e il bricco con il latte.
– Per molto tempo gli unici nemici furono gli insetti e i funghi che attaccavano le piante. Poi arrivarono i Carbonari, i Generali, i loro cavalli e tutto diventò più complicato perché c’erano di mezzo i Re, i Principi e gli eserciti. Arrivarono anche uomini da paesi lontani che massacravano i contadini e quelli che sognavano di cambiare il mondo – 
Maria Domenica era seduta dall’altro lato del lungo tavolo e ascoltava Tina, quasi distratta dalle rughe profonde che assottigliavano i suoi occhi chiari.
C’era dolore tra quelle rughe.
C’era una storia che attraversava il tempo.
– Giacomo Paglia morì ad Antrodoco e la sua morte non era sufficiente. Gli Austriaci e Re Ferdinando, volevano mio nonno e anche suo fratello che aveva solo sedici anni, volevano impiccarli a Porta Capuana, insieme a Morelli e a Salviati –
– Insieme agli Austriaci c’erano i briganti e poi arrivò tuo nonno. Disse che poteva intercedere presso il Principe di Canosa ma voleva in cambio le terre, le case. Voleva le loro vite ma li lasciava ancora respirare –
Tina restò in silenzio per qualche minuto, come a raccogliere dalla memoria uomini e fatti, come a riprendere fiato o forza per raccontare.
– Corrado Paglia non ebbe altra scelta ma chiese di conservare la sua casa e in cambio si offrì di lavorare quella terra che conosceva così bene –
– Gli austriaci andarono via ma i briganti rimasero e pretendevano soldi da mio nonno, in cambio della protezione, dicevano loro, e intanto stupravano le bambine e buttavano i loro corpi nel ruscello come carogne di animali –
– Poi arrivarono altri briganti e uccisero quelli che c’erano prima –
– Dicevano che la terra era un bene sacro e che rubarla era un peccato mortale –
– Uccisero tuo padre perché era figlio di quel delitto e continuarono a stuprare le bambine –
Era una storia che illuminava angoli bui, spiegava distanze, dava risposte a interrogativi rimasti sospesi.
Gaetano intanto stava giocando dentro casa. Saltava dalle scale e il rumore rimbombava in tutta la casa.
Era il suo gioco preferito: saltava prima un gradino, e poi due in una volta sola.
Il salto dei tre gradini richiedeva un lungo rito di preparazione alla ricerca del coraggio per affrontare quella sfida: quando era pronto chiamava la mamma perché voleva farle vedere quanto era bravo e coraggioso e poi saltava trattenendo il fiato e atterrava in modo rumoroso.
I quattro gradini, invece, lo spaventavano, facevano paura, non aveva mai provato a saltarli.
– Mio padre chiamò i carabinieri e loro uccisero tutti i briganti e già che c’erano anche dei contadini che andavano in giro a dire che la terra era di tutti –
La casa era vuota e quel rimbombo risarciva Maria Domenica dei suoni e degli odori che l’avevano accompagnata per tutta la vita.
Presto avrebbe lasciato quei luoghi pieni di una memoria che lei non voleva più portarsi addosso come un fardello doloroso.
– Poco prima di morire, mio padre ci chiamò, noi, i suoi figli, e ci disse che i Paglia erano gente onesta e che di onestà e di lavoro si poteva anche morire ma era una morte giusta, era una morte di cui andare fieri –
– Io so che tu e Enrico vi siete amati, ho visto addosso a mio nipote quello stupore che solo l’amore riesce a dare e mio fratello non capiva come una donna come te potesse perdersi dietro a un ragazzo giovane – 
– Aveva paura che fosse soltanto un tuo capriccio –
– Io invece ho visto i tuoi occhi luccicare mentre cadeva una pioggia rovinosa e sono sicura che fosse per lui, che era per Enrico  –
Maria Domenica aveva comprato un appartamento a Napoli, a Poggioreale.
Gaetano doveva andare a scuola e l’Avvocato aveva ottenuto dal tribunale le carte per poterlo finalmente registrare.
Lei aveva lasciato l’azienda in mano a un mezzadro e lui versava i soldi pattuiti alle scadenze concordate.
Quei soldi bastavano per lei e per i fratelli sopravvissuti ad una catena impressionate di disgrazie.
– Noi sapevamo che le nostre famiglie insieme potevano soltanto generare sangue. Ne avevamo paura, anche se non potevamo fare altro che stare zitti, lavorare e crescere i nostri figli –
– Ma nonostante tutto, il sangue è stato versato, quello di Enrico, il sangue più ricco e più doloroso, sangue del primogenito – 
– Gennaro si tormenta perché e stato proprio lui a mandare qui da te l'uomo che ha ucciso Enrico. Non vive più se non per sentire ancora quel dolore perché è l’unica cosa che gli rimane di suo figlio –
Tina era venuta a ritirare l’atto di vendita del frutteto di Monteleone.
L’importo era simbolico, era irrisorio.
Quegli alberi che portavano ancora il ricordo della roncola di Enrico valevano mille volte di più di quella cifra fredda e inutile, scritta in bella calligrafia.
La storia che Tina le stava raccontando era la stessa che aveva sentito proprio dall’Avvocato e che l’aveva convinta che per fermare quello spargimento di sangue, era indispensabile rimettere a posto quello che suo nonno aveva provocato.
Era la prima volta che Tina tornava in quella casa dopo la morte di suo nipote.
– Un giorno mi hai detto che io ero tua sorella e che avresti voluto esserlo per me e io avevo troppa paura del sangue che ha diviso la mia famiglia dalla tua – 
– Ma ora c’è quella creatura e ha i capelli neri e io devo sapere se è figlio di Enrico e solo tu lo sai, soltanto tu lo puoi sapere –
Nessuno lo sapeva, nessuno lo avrebbe saputo mai.
Maria Domenica, dopo lo stupro e l’assassinio, aveva semplicemente smesso di parlare.
Diceva solo lo stretto indispensabile.
Stava seduta per ore ed ore senza guardare nulla, senza pensare a nulla.
Aveva partorito dentro la camera di suo fratello Giacomo e passava gran parte del suo tempo seduta alla finestra mentre le donne intorno a lei badavano a suo figlio. Poi aveva ripreso piano la sua vita ma era come se Quagliarulo, oltre allo stupro, l’avesse derubata della chiave lasciando le emozioni e la fragilità irrimediabilmente chiuse dentro di lei.
Aveva fatto uno sforzo enorme, aveva chiamato Gennaro Paglia per la firma sul contratto di vendita, aveva visto i suoi occhi spenti ma tutto questo, così come la morte dei suoi fratelli, non la toccava più, non c’era più niente che potesse smuovere il gelo dei suoi occhi e ascoltava le vite degli altri con lo stesso interesse di chi ascolta il silenzio.
C’era solo suo figlio, Gaetano, che riusciva a strapparle un sorriso quando gridava “Mamma, guarda come riesco a saltare in alto”.
Soltanto lui.
Il resto non aveva più importanza.
Tina tornò a casa e in mano aveva un foglio di carta che non poteva risarcire tutte le lacrime versate.
Gennaro era seduto al tavolo della grande cucina e alzò soltanto un poco gli occhi quando lei si sedette davanti a lui.
Poi ritornò a guardare un punto indefinito fuori dalla finestra e in mano aveva un sacchetto di stoffa damascata che conteneva delle monete antiche.