Donna Clotilde peggiorava, lentamente ma inesorabilmente.
Il Dottore che veniva appositamente da Caserta, diceva che non c’era altro da fare: bisognava continuare con gli impacchi e con i salassi.
Diceva che il cuore poteva reggere ancora molto tempo oppure cedere da un momento all’altro.
Amelia le stava intorno, sempre più chiusa nel suo mondo pieno di santi dai nomi che a volte lei stessa si inventava e che la proteggevano dai mali e dalle tentazioni. Maria Luisa, invece, svanì dentro le pieghe degli impegni quotidiani di tutte le persone che gravitavano intorno alla casa.
Per giorni nessuno si rese conto della sua assenza. Tina chiedeva e qualcuno rispondeva di averla vista girovagare ma nessuno sapeva esattamente quando.
Una mattina Maria Domenica notò che i vitellini erano usciti dalla stalla e stazionavano all’ingresso, troppo impauriti per spingersi oltre e impossibilitati per qualche ragione a rientrare. Chiamò Tina e nella stalla trovarono Maria Luisa, sdraiata nello sterco, dietro le mangiatoie delle vacche.
Gli occhi erano spalancati e avevano il colore dell'acqua, sul viso una serenità che per un attimo aveva indotto le due donne a credere che stesse solo dormendo.
Si sforzarono di ricordare quando davvero avessero visto la ragazza per l’ultima volta ma l’odore dolciastro che aveva spinto i vitellini fuori dal loro rifugio diceva che erano passati di sicuro diversi giorni.
Mentre pulivano il suo corpo con acqua e aceto per togliere lo sterco e i primi segni della corruzione, Tina si chiese quanti anni avesse vissuto quella creatura dai lineamenti inconsueti e Maria Domenica si rese conto che non lo sapeva, che non si era mai occupata di lei come persona.
Maria Luisa era vissuta come un animale le cui necessità sembravano essere solo mangiare e bere per restare in vita.
Non si era mai ammalata, nemmeno un raffreddore, sembrava essere felice, sembrava non avere assilli o preoccupazioni.
Fu seppellita nel piccolo cortile recintato dietro la cappella e il prete della chiesa di Sant’Anna non volle benedire la sua salma perché diceva che in quei suoi lineamenti anomali e soprattutto nel sorriso che le era rimasto scolpito sulle labbra, c'era sicuramente il segno del demonio.
Disse solo una breve preghiera e Maria Domenica era furiosa e invece del cantaro di mele che aveva fatto preparare, gli diede solo una bottiglia di rosolio, di quello che era quasi inacidito.
Aveva anche pensato di approfittare della sua presenza per confessare il suo peccato, per rivelare a Dio, per il tramite del suo rappresentante, che aveva un figlio che stava crescendo nel suo grembo. Si disse invece che il Padreterno di sicuro già conosceva i fatti e che non era necessario dirlo a intermediari supponenti che avrebbero sicuramente avuto da ridire sul fatto che lei non fosse sposata.
C’era troppo demonio nelle parole di quel prete per rivelargli di essere incinta. 
Maria Domenica lo aveva saputo la notte dell’ultimo dell’anno.
Si era addormentata esausta dopo una giornata intera passata a disinfettare con l’aceto le latrine.
Avevano anche bruciato i giacigli della servitù a causa di una dissenteria che si era già portata via due dei bambini piccoli e una ragazza sconosciuta.
Aveva sognato proprio lei, quella ragazza senza nome che avevano seppellito dieci giorni prima.
L'avevano trovata una domenica di ottobre, seduta, vicino al recinto dei maiali, immobile, come se stesse aspettando una carrozza.
Era affamata, piena di pustole e pidocchi, vestita con stracci leggeri e non parlava: alle domande rispondeva solo con il suo sguardo perso chissà dove.
Tina l’aveva accolta con la sua umanità infinita, l’aveva pulita, lavata, sfamata facendole bere brodo di ossa di bue e carne di gallina, quello che riservava agli ammalati oppure a Maria Domenica quando vedeva la fatica appesantirle gli occhi.
In pochi giorni la ragazzina senza nome era rinata e una volta che erano riusciti a pettinare i suoi capelli, vennero fuori due occhi grandi, azzurri come il cielo.
Tina diceva che con quegli occhi poteva essere solo un angelo o una stella caduta chissà come dal firmamento.
I Carabinieri di Giugliano furono informati da Gennaro Paglia ma nessuno fu in grado di scoprire da dove fosse arrivata. 
Seguiva Tina come se fosse la sua ombra e stava a guardare il suo lavoro senza intralciarla mai, sempre rinchiusa dentro il suo mutismo.
La notte si addormentava sul pavimento e Tina aspettava di sentire il suo respiro regolare per prenderla di peso e metterla nel letto insieme a lei.
Sembrava trovare pace solo mentre dormiva e a volte sorrideva, forse dei suoi sogni.
Quando la dissenteria si propagò lei fu la prima a rimanere senza forze e poi a respirare con fatica fino a consumarsi definitivamente qualche giorno prima di Natale, tornando ad essere una stella solitaria in qualche cielo.
La notte di capodanno Maria Domenica sognò i suoi occhi azzurri.
Lei sorrideva, parlava, diceva di sentirsi finalmente bene.
Aveva una voce dolce come il miele e nel sogno disse di chiamarsi Anna.
Poi, sempre sorridendo, tese la mano e le toccò la pancia scoppiando in una risata che sembrava una sorgente d’acqua fresca.
Disse che c’era Gaetano dentro la pancia, che lei era arrivata a casa sua proprio per prendersi cura di quel bambino.
– Chi arriva ha sempre un compito assegnato, anche se è senza nome – disse con il suo sorriso enigmatico.
Maria Domenica si svegliò o forse semplicemente si accorse di essere sveglia e il sogno riempiva ancora la sua stanza come se fosse odore di pane dentro il forno. Sentiva forte anche odore di glicine, come se fosse già arrivata la primavera. 
Era lo stesso odore che aveva sentito in una notte calda, qualche mese prima.
Avevano da poco raccolto il fieno e cominciavano a preparare i pomodori, per le conserve, nei grandi pentoloni sotto il porticato.
L’aria era immobile e per trovare un alito di vento bisognava aspettare che la notte stessa si zittisse insieme alle cicale e i borbottii dei gufi.
C’era un momento in cui il mondo restava in bilico, sospeso dentro un tempo che non aveva odori, rumori e anche il bene e il male perdevano significato perché dormivano anche i poeti, i santi, i sognatori.
Maria Domenica aveva ascoltato tante volte quel vuoto innaturale e lo aveva sempre confrontato con il vuoto che sentiva dentro il cuore.
Di solito restava sdraiata sul suo letto cercando di respirare il meno possibile, ma quella notte qualcosa attrasse i suoi pensieri e si alzò come a rispondere a un richiamo che solo lei poteva udire. Nascosta dalla tenda guardò il cortile silenzioso e buio, gli attrezzi da lavoro lasciati sopra i grandi banchi di legno dove di giorno si mettevano a seccare i pomodori.
Seduto sul muretto c’era Enrico, la schiena appoggiata al grande leccio, il ciuffo dei capelli che si confondeva con il nero della notte fonda.
Sembrava assorto e solo il lento movimento delle gambe che probabilmente cercavano una posizione meno scomoda, convinse Maria Domenica che il ragazzo non era addormentato, che era sveglio. Come se stesse aspettando qualche cosa.
Lei si ritrasse, d'istinto; forse stava guardando qualcosa che non le era consentito.
Ebbe paura che il battito furioso del suo cuore avrebbe risvegliato tutti quanti, fino a Giugliano, fino al Lago Patria.
Come a un segnale stabilito, Enrico volse lo sguardo al suo balcone e lei senza pensarci neppure un istante, scostò la tenda lasciando che la luce della luna illuminasse il bianco del suo camice da notte e il desiderio che improvvisamente aveva preso possesso di lei e della sua anima.
Non c’erano corazze a proteggere il suo cuore. Non c’erano dubbi.
Lui era lì per lei e lei, dal giorno in cui l’aveva visto a Monteleone, aveva desiderato solo di smarrirsi tra le sue braccia.
Dentro il fienile si presero come due amanti collaudati, sentirono i propri odori e il sudore si mescolò alle lacrime per un’attesa che era stata devastante.
Nessuno dei due aveva mai avuto altre esperienze, se non la propria solitudine, sapevano però esattamente che cosa andava fatto e lo fecero, lo fecero di nuovo  fino ad abbandonarsi esausti l’uno sull’altra.
Si accorsero allora che il sole era già sorto e che la servitù già si aggirava nel cortile.
Invece di spaventarsi o di preoccuparsi, quasi morirono nel tentativo di soffocare le risate, e più escogitavano i piani per uscire senza essere visti, più si abbracciavano ridendo, come bambini sorpresi a scimmiottare i grandi.
Maria Domenica sentì un senso di libertà dalla sua stessa vita che le sembrava l’essenza stessa della felicità e solo quando infine riuscì a uscire senza essere vista e fece ritorno alla sua stanza, si rese pienamente conto di quello che le era accaduto.
Senza pensarci troppo richiuse la corazza a doppia mandata dicendo a se stessa che era stata una pazzia e che non sarebbe più accaduto. Mai più.
Enrico, invece, si addormentò e aveva un’espressione talmente beata stampata sul suo viso che quando un contadino lo vide lasciò il fieno fuori dalla porta e disse agli altri che c’era qualcuno che dormiva e che di sicuro lui non poteva risvegliarlo. Dovevano aspettare prima di scaricare tutto il raccolto.
Tina arrivò quasi allarmata dalle voci su un estraneo addormentato nel fienile.
Quando si rese conto che si trattava di suo nipote rimase pensierosa e assorta e dopo un lungo tentennare scrollò il ragazzo dal suo sonno e senza dire nulla uscì portandosi appresso il carico di mille pensieri.


Dopo l’aggressione nei pressi di Monteleone Maria Domenica aveva ridotto le sue uscite.
Chiese a Tina di parlare con suo fratello e Gennaro Paglia si presentò il pomeriggio stesso.
Lo fece accomodare nel salone, a piano terra, e senza preamboli gli chiese di trovare qualcuno che la accompagnasse nelle sue uscite per la riscossione delle somme dai mezzadri. Gli disse che doveva essere un uomo fidato, forte, un “Paglia” aggiunse sorridendo, per rimarcare la sua fiducia nell’onestà della famiglia.
– È meglio lasciare fuori Enrico da questa faccenda – disse Gennaro.
– Chi ha parlato di Enrico – rispose Maria Domenica stizzita, sentendosi però avvampare nonostante la corazza.
– Certo Signorina, volevo soltanto dire che mio figlio è ancora "nu guaglione", che non è adatto –
Maria Domenica faceva fatica a dissimulare il fastidio per quel malinteso, voleva troncare quella conversazione ma i Paglia erano le uniche persone di cui poteva fidarsi e Dio solo sapeva quanto avesse bisogno di persone amiche. Gennaro, in particolare, era letteralmente un'ancora di salvezza; la sua onestà e la sua autorevolezza, riconosciuta da tutti gli altri mezzadri, avevano in qualche modo smussato gli angoli taglienti che si erano aperti quando aveva messo mano agli affari di famiglia. Non poteva fare a meno di lui. Non voleva fare a meno di lui.
– Ho in mente una persona che può fare al caso vostro – disse dopo un lungo silenzio, pesante e spesso come un muro di mattoni.
Gennaro poi si alzò e aggiunse – Domani mattina si presenterà da voi con un mio biglietto e voi valuterete – 
Uscì senza guardarsi indietro, lasciando Maria Domenica furiosa con se stessa e con la sensazione di quella distanza che i Paglia avevano sempre mostrato di non volere cancellare nonostante fossero ormai passati alcuni anni di collaborazione onesta.
Maria Domenica era legata alla famiglia di Gennaro, era quasi la sua vera famiglia visto che ormai la madre non era più presente e i suoi fratelli si accontentavano di ricevere la loro rendita senza nemmeno chiedere o protestare quando lei inviava meno soldi.
Tina e Gennaro la facevano sentire meno sola ma la solitudine era la sua casa, il suo abito di tutti i giorni, la febbre che consumava la sua vita.
Niente poteva cambiare quella condizione. Niente e nessuno.
Il giorno successivo si presentò un uomo corpulento e silenzioso che aveva lunghi capelli neri e mani che sembravano in grado di sradicare gli alberi senza nessuna difficoltà. Maria Domenica lo fece attendere, a lungo, nella penombra della grande sala; era ancora infastidita dalla conversazione difficoltosa avuta con Gennaro Paglia. L’uomo non mostrò insofferenza per l'attesa e quando alla fine Maria Domenica arrivò, le consegnò una busta un po’ ingiallita che aveva custodito in una tasca interna del suo giaccone nero.
Lei lo lasciò in piedi e senza dire una parola prese la busta che aveva due iniziali vergate con inchiostro nero nell’angolo in alto a sinistra.
La aprì e dentro c'era un foglio che riportava in bella calligrafia soltanto un nome e un cognome e, più in basso, Gennaro Paglia aveva scritto quanto era solito ribadire a voce in ogni sua conversazione: ”al vostro servizio” chiudendo poi con la sua firma.
Anche quel foglio era ingiallito e riportava le stesse due iniziali come se fossero un piccolo stemma nobiliare.
Maria Domenica resto qualche momento ad osservare quella che sembrava essere una strana incongruenza.
Carta da lettera e iniziali erano prerogativa dei Signori, di quelli che avevano cognomi altisonanti, quelli che vivevano in attesa di un invito a Corte per mescolarsi finalmente con la vera nobiltà, a quelle famiglie i cui cognomi discendevano direttamente dagli Spagnoli e ancora prima dagli Angioini e dai Normanni.
Gennaro Paglia era solo un mezzadro e viveva in una vecchia casa a Monteleone; sia lui che Tina sapevano scrivere e far di conto e trattavano la servitù con una generosità che aveva spesso suscitato le ire e il disprezzo degli altri mezzadri, abituati a dare briciole di pane in cambio di un lavoro massacrante.
Erano anche puliti e sobri ma erano soltanto dei mezzadri.
Ripose quei pensieri dentro la busta, insieme alle generalità dell’uomo che stava ancora in piedi, davanti a lei, come una quercia secolare che non si sarebbe mossa mai, nemmeno se fosse arrivata una tempesta.
Uscì nel grande cortile e fece un cenno a Tina.
– Accompagnalo nella stanza che abbiamo preparato – disse indicando Armando Quagliarulo.
– Poi gli dirai che cosa deve fare – aggiunse.
Tina ascoltò e poi volse lo sguardo all’uomo corpulento che solo allora si mosse, incamminandosi dietro di lei verso la palazzina degli alloggi.
Maria Domenica guardò ancora una volta la busta e passò le dita sulle iniziali di Gennaro Paglia come per accertarsi che fosse vero quello che gli occhi gli stavano dicendo. Nascose tutto dentro la tasca del corpetto e restò assorta nella penombra della casa.
C’era qualcosa che non capiva: erano di nuovo gocce di acqua che non riuscivano a spiegare che cosa fosse il mare.

Dopo che Tina lo aveva risvegliato, Enrico era passato alla capanna degli attrezzi e aveva preso roncola e coltello e si era avviato nel folto del frutteto con gli occhi che guardavano qualcosa che gli altri non potevano nemmeno immaginare.
Saliva sopra i meli, sfrondava i rami, capiva senza la minima fatica qual era il varco che era necessario aprire per far filtrare luce a sufficienza e rendere le mele irresistibili ai palati dei re e delle regine.
Sentiva anche qualcosa muoversi dentro di se, come se un altro essere si fosse risvegliato cercando un varco alla ricerca di quella stessa luce e si rammaricava di non saper cantare, di non poter urlare, o solo raccontare quello che era accaduto.
Voleva che tutti quanti sapessero che aveva un fuoco enorme dentro il cuore e invece di sentire odore di bruciato, sentiva il vento che scompigliava i suoi capelli neri, sentiva il sole che penetrava la sua pelle e la pioggia che ripuliva il mondo dalla polvere e tutto gli sembrava straordinario come se gli occhi fossero finalmente in grado di vedere un mondo fino ad allora sconosciuto.
Gli venne in mente un giorno di molti anni prima: era un bambino e insieme a suo fratello aveva ostruito con grossi sassi il corso del ruscello che lambiva i campi coltivati. Si era formata in breve tempo un’ampia pozza che poi si era allargata fino a superare l'argine e a disperdersi tra il mais e il frumento.
Lo sbarramento all’improvviso si era sgretolato e la massa d’acqua aveva trascinato via le pietre, i rami e anche il terreno circostante.
Filippo si era spaventato ed era scappato via. Enrico, passata la paura, si era accorto che lo smottamento del terreno aveva scoperto l’angolo di quella che sembrava una scatola di legno, sepolta profondamente a poca distanza dell’argine del fiume. Aveva scavato fino a scoprire completamente l'oggetto misterioso: un piccolo baule che aveva intarsi sul coperchio. Aveva forzato la serratura con un vecchio coltello dimenticato sotto un albero da qualche contadino e il legno, quasi marcito dall'umidità, si era spezzato al primo tentativo. Dentro la scatola c'erano alcuni fogli scritti con una calligrafia minuta e incomprensibile. Poi un sacchetto fatto di stoffa damascata che conteneva alcune monete. Sembravano antiche. Sembravano preziose.
Lui ricordava ancora il brivido lungo la schiena mentre aveva consegnato la scatola e il suo contenuto al padre.
Gennaro Paglia aveva voluto vedere il luogo del ritrovamento e gli aveva chiesto più volte di raccontargli esattamente quella storia.
All'inizio pensava che il padre fosse soltanto un po' distratto ma poi quasi si era preoccupato per quella continua richiesta di ripetere il racconto di quell'avventura: come aveva messo le pietre nel ruscello, dove aveva trovato quel coltello e in che modo era riuscito, da solo, ad aprire quella scatola.
Sembrava quasi non capire, sembrava che improvvisamente suo padre dimenticasse in pochi istanti quello che lui gli raccontava.
Tornando a casa Gennaro Paglia aveva detto a Enrico che aveva trovato un piccolo tesoro: monete d'argento che risalivano a quasi trecento anni prima.
Quelle monete sarebbero servite per il suo futuro..
Quel futuro sembrava essere arrivato.
Aveva i lineamenti di Maria Domenica, la sua determinazione e la profondità che lui vedeva nei suoi occhi.
Tornò ad aspettarla seduto sul muretto, la schiena appoggiata al grande leccio e gli occhi che cercavano nel buio ogni più piccolo respiro che assomigliasse a quelli che in quella prima notte magica si erano mescolati con il sudore appiccicandosi alle labbra. Passava quelle notti in preda ad una febbre spaventosa ma il suo balcone restava spalancato e vuoto come se fosse un pozzo senza fondo e lui sentiva crescere una inquietudine feroce. Suo padre, durante il giorno, lo osservava mentre assonnato restava sopra gli alberi di mele con la sua roncola e un’ espressione indecifrabile sul viso.
Maria Domenica invece restava immobile nel letto, come legata mani e piedi, senza dormire mai, perennemente in lotta con il desiderio di guardare dal balcone e la certezza che se lo avesse fatto non sarebbe più riuscita a fare a meno di quelle risate da bambini e anche delle mani che avevano esplorato ogni centimetro della sua pelle chiara.
Poi, una notte di fine settembre, il cielo scaricò una pioggia trattenuta troppo a lungo e fiumi d’acqua stavano portando via gli attrezzi, le roncole, le vanghe.
Tutta la casa si svegliò cercando di mettere al riparo il bestiame, chiudere stalle e magazzini mentre le erbe mediche stese ad essiccare finirono spazzate via da un vento impetuoso.
Enrico, sotto la pioggia, cercava di porre rimedio a quel disastro, chiamava i contadini, chiudeva porte e rimetteva in piedi tavoli e bancali. 
Maria Domenica incrociò il suo sguardo e sentì che aveva perso tempo, inutilmente.
Lui era il profumo che era mancato a ogni notte passata sola nel suo letto.
Quando la pioggia si fermò e il silenzio prese di nuovo possesso della casa, Maria Domenica uscì dalla sua stanza e attraversò il cortile entrando direttamente nel fienile.
Armando Quagliarulo, nascosto dietro la palazzina degli alloggi, vide la porta chiudersi e rimase ancora a lungo assorto a guardare il grande cortile.

– Devi andare via –
– Lo so ma si sta così bene qui –
Maria Domenica lo aveva fatto entrare dal retro della casa, attraverso le cantine.
C’era una stretta intercapedine che portava direttamente nell’ampio salone al piano terreno.
Era nascosta tra le scale e il muro esterno e l’uscita era celata dietro una rientranza vicino alla finestra. Sembrava soltanto un ripostiglio e invece era il passaggio segreto che era stato uno dei giochi della sua infanzia, il suo segreto.
In qualche modo sembrava di essere tornata a quella spensieratezza, a quella capacità di ridere di nulla.
– Errì, fra poco sarà giorno –
Averlo nel suo letto aveva tolto l’odore di fieno dalle loro notti ma aveva aggiunto la possibilità di avere la luce tremolante della candela accesa a illuminare i loro corpi. Erano immagini che rimanevano sospese nella stanza in quell’autunno fradicio di pioggia.
Maria Domenica le ripescava nelle sue lunghe notti insonni quando il pensiero si arrovellava sui perché, sui come, sulla necessità di essere all’altezza, sulla fragilità che lei sentiva come un tesoro inestimabile da regalare a un uomo, qualcuno in grado di prendersi cura di lei e delle sue paure.
Sapeva che il destino le aveva tolto ogni possibilità di essere quel tipo di donna, sapeva che la vita sarebbe stata altro dalla sua voglia di ridere e che Enrico era soltanto una lozione lenitiva, acqua di rose sopra una ferita che non sarebbe mai guarita.
Curava la sua malinconia con lo stupore che ogni volta leggeva nei suoi occhi quando lasciava che disponesse di lei e del suo corpo come se fosse qualcosa che apparteneva solo a lui.
Pagava quel piccolo spazio di felicità con lacrime che ogni notte le ricordavano che c’era del lavoro che aspettava qualche centimetro più in là di quella follia.
– Vai, non puoi restare oltre –
– Domani torno –
– Domani no –
– Io sarò al solito posto, tutte le notti –
– Tuo padre si accorgerà che passi tutte le notti sul muretto –
– Mio padre ha altro da fare –

Armando Quagliarulo era seduto sul grande tronco di quercia che stava ai lati del viottolo, abbattuto da chissà quale tempesta.
La casa dei Paglia era dall’altro lato ed era una casa padronale costruita con pietre pesanti e legni massicci.
Aveva visto altri splendori e tutto intorno c’erano le dipendenze con i tetti sfondati e i muri pericolanti rimasti a guardia di ampi terreni coltivati.
Nella casa viveva la famiglia di Gennaro, i cinque figli, le sue sorelle, Tina ed Ersilia che non si era maritata per accudire la vecchia madre.
Armando Quagliarulo stava aspettando che Gennaro uscisse, come ogni mattina, per andare nei frutteti a Monteleone.
Doveva raccontargli di suo figlio Enrico, voleva dirgli che quella donna era una poco di buono e mentre aspettava saggiava con il suo coltello il legno duro e scuro della quercia ma dentro gli occhi aveva solo la pelle bianca che aveva visto al chiaro di luna.
Fece un sospiro e mentre richiudeva la lama del coltello decise che era meglio non dire nulla. Meglio tacere,