Maria
Domenica era l’ultima nata nella grande casa di Giugliano.
Suo nonno era un commerciante che si era arricchito trafficando con gli
Austriaci chiamati da Re Ferdinando di Borbone a reprimere i pazzi
sognatori che lo avevano costretto a concedere la Costituzione.
Non era
chiara la natura di quei commerci ma in poco
tempo avevano consentito l’acquisto di vasti
terreni nella piana che
arrivava fino al Lago Patria.
Era invece risaputo che i
proprietari di quei terreni avevano partecipato attivamente alla
Cospirazione seguendo a occhi chiusi i Capi Carbonari.
Tornarono
sconfitti, traditi, umiliati; erano sopravvissuti alla battaglia di
Antrodoco e a casa li attendeva la paura
di essere
denunciati.
Anche Nicola Giannattasio, stretto
collaboratore del Generale Pepe e proprietario della casa, dopo essere
stato rinchiuso nel Castello di Nisida, fu inspiegabilmente liberato e
poi esiliato, non prima di aver venduto a prezzo di favore la
casa e i terreni
coltivati con alberi di mele prelibate, richieste dalle tavole
più ricche del Regno di Napoli.
Maria
Domenica non si era mai sposata.
Da quando era nata, sapeva che il suo
compito sarebbe stato quello di accudire la vecchia madre cui si era
aggiunta una zia rimasta vedova e la sua figlia ritardata. Suo padre
era morto qualche mese prima della sua nascita e di questo evento,
tutto quello che sapeva, erano poche parole, dette a mezza
voce dalle sue sorelle quando era ancora una bambina piccola.
Allora non le aveva
capite ma le era rimasta addosso la paura e non aveva mai osato
chiedere che cosa fosse realmente accaduto.
Notava solo che gli scugnizzi, i figli dei contadini, i suoi nipoti, i
figli della governante, tutti avevano oltre
alla madre anche un padre o almeno sapevano in che modo era morto,
dov'era
sepolto, quando era scappato, oppure quale era la sventura che
l'aveva portato via.
Dov’era il suo? Che cosa
significavano quelle parole che bruciavano la pelle, quelle che aveva
sentito da bambina in quella notte buia?
Nei lunghi giorni dentro le
stanze enormi di quella casa, Maria Domenica aveva immaginato un uomo
alto,
con l’armatura e una lunga lancia mentre affrontava giganti
spaventosi senza avere il minimo timore oppure un giovane vestito in
modo
raffinato, la mano destra dietro la schiena e la sinistra che reggeva
con eleganza la propria dama durante il ballo nella Reggia di Caserta.
Non c'erano invece immagini adeguate a quelle parole piene
di paura.
Non c’era niente di regale che potesse coniugarsi
con “vendetta”, con
“dissanguato”, con “sgozzato”.
Nel frattempo la casa si era svuotata dei fratelli e
delle sorelle, qualcuno a causa del colera, altri perché
attirati dalla vita di città e ritornavano solo di rado, per
raccontare di come fosse bella Napoli, di quanto grande era il mare e
Maria Domenica, che non aveva visto mai nemmeno il Lago Patria, proprio
non riusciva a immaginare come potesse una
distesa enorme d’acqua stare dentro una buca, senza fuggire
via,
come raccontavano i suoi fratelli.
Quando nessuno la guardava, prendeva la
brocca della toilette in camera sua e poi versava l'acqua sul balcone,
lentamente, restando a guardare il
gocciolio del liquido sui Lilium e sulle rose rampicanti, ed era
perplessa
e pensierosa.
Crebbe così, cercando di immaginare che cosa fosse la vita
vera, senza poterla mai assaggiare, senza potersi mai distrarre dai
suoi doveri quotidiani: gli impacchi di malva sopra le piaghe della
madre, la pulizia con acqua di rose della zia e poi i pidocchi che
brulicavano sulla testa di Maria Luisa, la sua cugina
ritardata.
Era
un ciclo continuo che non lasciava spazio ai rimpianti o ai
desideri.
Doveva
anche badare ai conti e i soldi non erano mai abbastanza.
Aveva
cominciato a controllare e aveva scoperto che la governante spendeva
solo parte di quello che riceveva per la gestione della casa.
Anche il
mastro falegname chiedeva olio d'oliva e quarti di agnello per il
taglio degli alberi al Parco Platani senza che fosse possibile capire
se il legname fosse poi stato venduto, bruciato, oppure fosse rimasto a
marcire sopra i campi.
Scoprì che i carichi di mele
venivano
venduti a prezzi irrisori e che i mezzadri trattenevano gran parte dei
raccolti e non la quota stabilita dai contratti e in più i
contadini erano pagati con le frattaglie degli animali macellati
mentre le parti nobili venivano vendute, ovviamente
all’insaputa
di sua madre.
Più controllava e più
scopriva che la
gestione del patrimonio di famiglia era in mano a mariuoli.
Tutti
si erano ampiamente approfittati
della buona fede di sua madre e poi della sua vecchiaia e
inabilità.
Sembrava che
uno sciame di cavallette avesse divorato gran parte degli averi e
nessuno della famiglia si era mai interessato o chiesto da dove
arrivassero i soldi e
le ricchezze che mantenevano i grandi appartamenti di via
Toledo a Napoli.
Maria Domenica chiese consiglio all'avvocato di famiglia e
scoprì che molti dei terreni avevano
ipoteche a garanzie
di debiti che da vent’anni si accumulavano.
Non
erano ancora
scivolati nell’indigenza ma c’era di che aver paura.
Passò
una notte intera a piangere e al mattino decise che tutto sarebbe
cambiato.
In uno dei momenti in cui sua madre non era in preda alla demenza, le
fece firmare la delega totale e irrevocabile alla
gestione dei beni di famiglia. Fece poi scrivere all'avvocato una
lettera
ai suoi fratelli in cui si descriveva nei minimi dettagli la situazione
e contemporaneamente spostò le ipoteche sui loro
appartamenti.
Poi cominciò a sanare il marcio.
Una mattina scese nell'aia e si
accertò che tutto il personale avesse lasciato i propri
alloggi e chiuse l’accesso alla palazzina con una
catena.
Chiamò tutti a raccolta e con voce ferma disse che da quel
momento
erano tutti licenziati e che potevano riavere le loro cose solo in sua
presenza e uno per volta.
– Tutte le spettanze saranno liquidate a fine mese
– disse
e quasi non
riconosceva la sua voce.
Ci fu un silenzio cupo, pieno di attesa e di paura.
Scoprì che era
facile infilare lo sguardo direttamente dentro gli occhi delle persone
che le stavano davanti.
Riusciva a percepire lo smarrimento,
il timore e anche la sfida e mentalmente scelse le persone che
sarebbero restate, quelle che, ne era sicura, nei loro alloggi avevano
soltanto la loro vita, i loro sogni e niente che appartenesse a lei e
alla sua
famiglia.
Passò poi ai mezzadri e si rese conto che riusciva ad essere
feroce anche con loro.
Molti di loro erano tutt’altro che guerrieri in
armatura, sembravano cani spaventati, cercavano di rifugiarsi dietro i
“non so” o i “non ricordo”
quando lei mostrava
ricevute firmate proprio
da loro, come se fossero confessioni spudorate.
I contadini assistevano a quel terremoto senza alzare mai la testa e si
fermavano soltanto quando lei chiedeva il loro nome.
Nel frutteto di Monteleone parlò con
l’unico mezzadro
che aveva rispettato i contratti.
Lui aveva sostenuto il suo
sguardo senza timore e senza reverenza.
Le aveva detto che faceva del
suo meglio e i suoi contadini sembravano ben nutriti e non si
grattavano la testa.
Aveva un figlio che a torso
nudo, nascosto dentro il folto degli alberi di melo, sfrondava i rami
con una roncola che sembrava la continuazione del suo braccio.
– Si chiama Enrico, al vostro servizio
–
Lei guardò il ragazzo ma non percepiva
né timore,
né smarrimento e neppure la paura. Sentiva soltanto un caldo
sconosciuto
tra le gambe e non riusciva a distogliere lo sguardo dai muscoli
del ragazzo impregnati di sudore, dai suoi capelli neri, dalle sue mani
grandi,
enormi, sporche di terra e di lavoro.
Tornò a casa ed era turbata.
Quel mezzadro era il diretto discendente dell'antico proprietario del
frutteto.
Più di sessanta anni prima, Giacomo Paglia aveva creduto
alle
parole
di uomini illuminati che parlavano di un nuovo ordine, di una nuova
giustizia, di speranza.
Era partito per difendere la Costituzione e gli sembrava giusto e
sacrosanto
che tutti dovessero impegnare la propria vita se si voleva finalmente
cambiare le cose.
Durante la battaglia era rimasto al proprio posto, al
Colle di Lesta, mentre tutti fuggivano impauriti.
Lui e il suo
plotone avevano obbedito agli ordini del Generale Pepe, avevano tenuto
la posizione per poi ritirarsi lentamente verso le gole di
Antrodoco.
La notte del 9 di marzo furono accerchiati
e massacrati
senza pietà dalla cavalleria del Generale Frimont.
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