Io e Gaetano ci sposammo a maggio; ero incinta di Silvana e il matrimonio fu un dolore insopportabile. 
Mamma invecchiò di venti anni e Assunta non mi parlava più, nemmeno per errore.
Io coltivavo la mia colpa con la certezza che la vita che mi portavo dentro non potesse essere un male, non lo era e non lo sarebbe stato mai.
Zia Ata non diceva nulla ma si vedeva che era infastidita da quella tragedia che si svolgeva proprio in casa sua.
Forse si sentiva un poco responsabile: aveva insistito tanto con mia madre fino a che avevo avuto il permesso di andare da sola dalle Monache e poi anche dalla Signora Santi che mi insegnava a suonare il pianoforte due pomeriggi a settimana.
Diceva che ero grande, che avevo dimostrato di meritarmi la fiducia perché ero una "signorina con la testa sulle spalle".
I primi giorni di quella libertà inusitata li avevo vissuti con il cuore in gola, senza guardarmi intorno, senza alzare lo sguardo dal marciapiede e senza ascoltare i fischi del verduriere che stava all'angolo con il suo carretto e un povero mulo costretto a guardare solo davanti a sé.
Mi faceva coraggio la fiducia di zia Ata, mi sorreggeva la promessa di non cercare mai più quegli occhi neri che mi avevano infiammato il cuore.
Per settimane mantenni fede alle aspettative e alle promesse ma era difficile restare in equilibrio su quel filo teso sopra la vita intensa che scorreva tutto intorno, senza badare ai suoni e ai colori che Roma regalava a ogni angolo. Io mi sentivo sempre come se stessi camminando sui carboni accesi.
Poi, senza pensarci troppo, un giorno entrai nella pasticceria.
Forse volevo provare a me stessa che ero diventata forte, che ero davvero una "signorina con la testa sulle spalle".
Lui era dietro il suo bancone e alzò lo sguardo su di me e mi sembrò che il suo sorriso si illuminasse di una luce che certamente non apparteneva a questo mondo.
All'improvviso capii che gli occhi suoi li avevo dentro il cuore: potevo fuggire fino in Africa o far passare i secoli ma non sarebbero mai più andati via.
Così quel giorno cominciò uno stillicidio di bugie, di sotterfugi, di sguardi indagatori soprattutto da parte di zia Ata che aveva anche cominciato ad annusare i miei vestiti, di nascosto, dopo che ero tornata a casa.
La Signora Santi riceveva i saluti della zia e poi l'informazione che giovedì proprio non era possibile fare lezione perché dovevo stare in casa ad aiutare mamma a fare la conserva. Ero così sfrontata e avevo un'aria così angelica che a nessuno venne in mente mai di controllare.
Almeno una volta ogni due o tre settimane avevo qualche ora da passare con Gaetano e lui mi portava sulla bicicletta fino al parco di una villa antica. Passeggiavamo e lui parlava senza fermarsi mai. Mi raccontava della sua infanzia, a Giugliano, dentro una casa grande piena di stanze chiuse e polverose.
Diceva che in quella casa c'erano soltanto donne e forse era per questo che sapeva come farmi ridere.
Gaetano era un perfetto gentiluomo: non chiese mai quello che non potevo dare, sembrava aver capito che non ero una poco di buono e questo metteva a tacere i miei sensi di colpa e la mia coscienza.
Eravamo ogni volta più vicini, sempre più legati.
Lentamente ma inesorabilmente finimmo per trovare naturale prenderci per mano e poi abbracciarci e dopo non fu più possibile fermarsi.
Gaetano mi aveva detto che voleva parlare con mia madre ma io avevo timore che questo avrebbe inevitabilmente comportato una limitazione di quella libertà, di quelle ore rubate alla Signora Santi che infine passavamo nel suo appartamento a fare l'amore.
Ero felice, come non lo ero stata mai in tutta la mia vita.
Avevo cominciato a sognare una vita nostra, mia e di Gaetano, senza bugie, sensi di colpa o sotterfugi.
Volevo raccontare quella felicità ad Assunta, a mamma, persino alla Signora Santi.
Passata la Quaresima, avrei detto a Gaetano che il momento di venire a casa mia era arrivato e potevamo fare i piani per un matrimonio che, ne ero certa, sarebbe stato il più felice della storia del genere umano.
Quando ai primi di marzo mi accorsi di essere incinta mi crollò addosso l'universo.
Piansi tutta la notte, in silenzio, per non svegliare Assunta.
Lei era all'oscuro di tutto ed io mi sentivo così in colpa per non averle detto nulla, per aver raccontato anche lei le mie bugie.
Avrei voluto infilarmi nel suo letto, nascondermi tra le sue braccia, chiederle perdono oppure prenderla per mano e portarla dietro il banco degli attrezzi nel nostro granaio di Magliano e sospirare mille volte per far morire la paura che mi stringeva il petto.
Ero stupita che i sensi di colpa fossero in gran parte riservati a mia sorella.
Non temevo mamma e meno che meno mi preoccupava zia Ata.
Avevo la certezza che il tradimento maggiore fosse proprio quello che avevo riservato ad Assunta e molte volte mi sono chiesta se fu anche questo dolore a spingerla sopra una nave, attraverso l'oceano, verso un destino che soltanto Dio conosce.
Restai invece a piangere da sola, in silenzio, quella notte e le notti successive e volevo morire come Palma, come papà, come Severo.
Non sapevo cosa fare, non sapevo chi fosse la persona che per prima doveva sapere quello che mi stava accadendo.
Una notte che mi ero alzata in preda ad una nausea insopportabile, avevo trovato zia Ata fuori dalla porta.
Mi guardava e sentivo i suoi occhi percorrere la pelle, il cuore e infine l'anima.
Non fu necessario dire alcunché.
Mi fece sedere in cucina e chiuse le porte.
– Almeno sai chi è il padre? – mi chiese.


Le contrazioni stavano aumentando.
La durata e l'intensità mi facevano pensare che Carmela avesse proprio ragione, che eravamo davvero vicini alla nascita della creatura.
Lei stava seduta sulle ginocchia alla fine del letto e mi guardava tra le gambe e poi guidava le mie contrazioni come un cocchiere esperto che sa come gestire una pariglia di cavalli.
– Spingi Maria, più forte – 
Era passata al "tu" senza che fosse necessario chiedere permessi.
Quello che accadeva all'alba di quel giorno umido era qualcosa che ci rendeva molto di più che amiche, più che sorelle: eravamo davvero una cosa sola come mi aveva promesso quando la notte doveva ancora cominciare.
Sentivo la sua voce penetrare i morsi della carne, sembrava quasi avesse il magico potere di indirizzare quel poco che restava della mia forza, laddove era necessario. Senza avvisarmi aveva rotto il sacco e il liquido caldo era uscito bagnandomi le gambe.
Non avevo la forza di allarmarmi e nello stesso tempo sentivo di essere al sicuro, sentivo che l'unica cosa che dovevo fare era seguire la sua voce come se fosse luce in una notte buia.
– Marì ci siamo, ora devi spingere verso il basso – 
Aveva messo le braccia sulla parte superiore della pancia e mentre mi piegavo, sentivo che era lei che stava spingendo fuori la creatura.
Io sopportavo quel dolore atroce chiudendo gli occhi e trattenendo quel poco di respiro che ancora mi teneva in vita.
– Brava, ora respira, respira Maria, riposati qualche minuto e non preoccuparti che manca poco – 
Quando le contrazioni si esaurivano, mi abbandonavo esausta contro i cuscini e respiravo in fretta perché altrimenti il cuore sarebbe esploso dentro il petto.
Con gli occhi chiusi sentivo la commara che mi passava il panno di lino sulla fronte e poi sul collo ad asciugare il mio sudore e anche le lacrime ed io non lo sapevo se erano lacrime per la mia carne morsa dagli spasmi o per la solitudine che forse avevo meritato.
Non c'era mamma, non c'era zia Ata, non c'era nemmeno Assunta e di questo io ero colpevole come un assassino consumato e consapevole.
Non c'era nemmeno la strega cattiva.
Ero davvero sola e presto, molto presto, parte di quella solitudine sarebbe stata l'unico regalo a quella creatura che stava lottando per vedere una luce che era solo un inganno.

L'avevo detto a Gaetano e lui senza nemmeno un tentennamento aveva detto che era la cosa più bella che ci potesse capitare.
Disse che avrebbe subito scritto una lettera a sua madre per annunciargli che si sposava e che presto sarebbe arrivato un nipote.
Disse proprio così e probabilmente questo era l'esatto contenuto della sua lettera.
Non avevo avuto il minimo dubbio che lui potesse abbandonarmi, avevo la certezza che fosse innamorato di me, lo vedevo nei suoi occhi, lo vedevo nell'urgenza che aveva di scrivermi lettere appassionate nei lunghi giorni in cui non potevamo vederci.
Mamma, invece, Il giorno in cui seppe la verità, dopo avermi schiaffeggiato e insultato, mi disse che era un bene che papà fosse già morto altrimenti lo avrei ucciso io con quello che avevo combinato.
Rimasi ferita da quelle parole, molto più degli insulti e il male che sentivo dentro era molto di più di quello che gli schiaffi avevano lasciato sul viso rigato dalle lacrime. Papà era morto di dolore perché aveva perso Palma ma io e Assunta eravamo vive e avevamo il suo sangue nelle vene e lo aveva anche il figlio che stava crescendo dentro la mia pancia.
Era un dono di Dio e non una colpa.
Assunta guardava quel dramma di lacrime e di grida senza dire una parola, senza guardarmi mai, nemmeno per errore. 
Zia Ata lasciò che la tempesta si placasse quel tanto che bastava per poi prendere in mano le redini di tutto.
Così, dopo due giorni di urla e di pianti, riunite intorno al tavolo, noi donne, vedove e orfane di padri e di mariti, ognuna di noi con dentro dolori insopportabili, cercammo di trovare la forza per asciugare tutte le nostre lacrime e guardare a un possibile futuro.
Zia stabilì che bisognava conoscere l'unico uomo di questa tempesta.
– Maria si deve sposare e le cose da fare sono mille volte mille – disse come a sancire che il tempo delle grida era finito.
Poi, tra lo stupore di mamma e di Assunta disse che c'era anche un'altra possibile via d'uscita da quel temporale: conosceva una donna, una vecchia "mammana", che in cambio si soldi poteva "levarmi d'impiccio".
Disse proprio così.
Gaetano venne a parlare con mamma qualche giorno dopo mentre zia Ata stava dietro la porta della sala ad ascoltare.
Si presentò con la camicia inamidata e il farfallino e i suoi occhi neri ammorbidirono un poco la tensione.
Lui era comunque un buon partito: aveva un lavoro sicuro e aveva anche una piccola rendita mensile.
La casa a Roma era in affitto e sarebbe stata sufficiente per noi e per il bambino. 
Non c'erano problemi se non quelli morali.
Mamma gli disse che doveva anche parlare con sua madre e lui rispose che stava aspettando la risposta alla sua lettera.
Lei, la madre di Gaetano, arrivò a Roma solo passata Pasqua, quando la data del matrimonio era stata fissata e i preparativi erano già molto avanzati.
Non aveva risposto alla lettera e non si era fatta trovare agli appuntamenti che, tramite il posto di telefono pubblico, suo figlio aveva organizzato.
Quando chiedevo, lui si rabbuiava e mi diceva solo che non sapeva niente per poi cambiare subito discorso.
La domenica in Albis, durante tutta la messa, Gaetano non mi guardò nemmeno una volta e poi, finita la funzione, voleva scappare via senza nemmeno salutarmi.
– Gaetano, che cosa ti succede ? –
– Niente Mariè, sono solo un poco "sfasteriato" – Girava la testa da una parte all'altra come se stesse cercando qualcosa o qualcuno.
– Devo tornare alla bottega, ci sono due banchetti tutti da preparare –
Era plausibile quello che stava dicendo, però non mi guardava e questo proprio non era consueto.
– Gaetà io ti conosco troppo bene, mi stai nascondendo qualche cosa – 
Mi piazzai davanti a lui e per un attimo riuscii a guardarlo dritto negli occhi. Erano spenti, erano senza lucentezza.
Lui sospirò e si infilò le mani in tasca mentre guardava qualcosa che stava assai lontano, lungo la strada, qualcosa che vedeva solo lui.
– Ieri è arrivata mamma da Napoli – disse dopo un silenzio fastidioso.
– È andata via questa mattina e non verrà al matrimonio –
Rimasi impietrita, come una statua di Pompei. Sentivo un formicolio alla base della nuca e un mare di pensieri velenosi mi attraversò da capo a piedi.
Ebbi paura che Gaetano stesse per dirmi che non mi avrebbe più sposato.
– Mariè tu non ti devi preoccupare – disse, e aveva gli occhi lucidi.
Ci sposammo a Maggio e andammo in Municipio come se dovessimo sbrigare una faccenda fastidiosa: io, Gaetano e mamma, senza nemmeno Assunta o zia Ata.
I testimoni erano impiegati dell'Ufficio Comunale e sorrideva solo il Delegato del Sindaco che si sforzava di dare un tono solenne a quella cerimonia.
Ma i suoi sorrisi erano forse il frutto dell'imbarazzo per uno strano matrimonio: tre sole persone e nessuno sembrava essere felice. 
Non ci fu neanche un altare per la nostra promessa di eterna fedeltà, nessuna festa. Venne il Curato in casa di zia Ata e tutto si svolse velocemente, senza sorrisi o fiori e il prete era visibilmente infastidito, come se fosse immerso in una vasca piena di pescecani.
Fu quasi peggio che in Municipio e non mi consolava il fatto che alla fine di quello strazio sarei andata a casa di Gaetano, avremmo chiuso la porta e saremmo rimasti io e lui e la creatura che portavo in grembo.
No, non era quello il matrimonio che avevo sognato.
Ma il peggio stava aspettando con pazienza.


Un giorno di una primavera dolce e piena di promesse Gaetano tornò a casa con la faccia scura.
Silvana gli corse incontro come al solito, voleva fargli vedere come aveva vestito la bambola che lui le aveva regalato, diceva che papà era suo.
Lui la guardò solo un momento e poi andò in camera da letto e chiuse la porta.
Ero abituata alle sue stranezze, non era una vita facile come avevo sperato.
A volte tornava a casa a notte fonda e aveva addosso odori inconsueti oppure non mi toccava per giorni e giorni.
Avevo provato a parlare con lui ma rispondeva che erano soltanto fissazioni, non c'era nulla di reale.
I primi tempi non avevo dato troppo peso a queste sue stranezze ma poi la gelosia aveva cominciato a insinuarsi dentro le lunghe sere in cui stavo ad aspettarlo, seduta al tavolo in cucina, la pasta pronta dentro i piatti.
Avevo cominciato ad annusare di nascosto i suoi vestiti, come avevo visto fare a zia Ata con i miei.
Lui frequentava un circolo politico, giocavano a carte e parlavano di Mussolini.
A volte a cena mi raccontava di persone violente che di notte uscivano con i bastoni per malmenare i bolscevichi e Gaetano aveva riconosciuto alcuni malviventi legati alla camorra. Sentivo un brivido lungo la schiena mentre lo ascoltavo e dentro di me io mi chiedevo se avessi preferito continuare a sentire sui suoi abiti l'odore delle femmine che dopo le carte frequentava oppure quello del sangue di giovani innocenti.
Io ero di nuovo incinta e avevo un bisogno disperato di credere che tutto fosse a posto, che non ci fossero le ombre che intravedevo negli occhi neri che mi erano entrati dentro al cuore.
Da qualche mese ero rimasta sola.
Dopo che Assunta si era persa in quell'America lontana, mamma sembrava aver smarrito la sua forza e stava per giorni interi chiusa dentro casa e neanche la tenerezza per Silvana riusciva a darle pace. Sembrava avere perso il senso della vita ed era dilaniata dal dolore per una figlia smarrita chissà dove e l'altra che si era macchiata di una colpa che neanche come nonna riusciva a perdonare.
Zia Ata la trovò una sera, stesa per terra, sul viso un'espressione di paura, come se avesse visto in faccia chi l'aveva portata via e l'unica cosa che restò da fare fu di portarla nel cimitero di Magliano, accanto a suo marito e non lontano dalla foto un po' sbiadita di Cleofe e nonno Sisto che sorridevano tenendosi per mano.
Zia Ata si chiuse in un lutto che sembrava un muro poderoso e lentamente mi fece capire che non gradiva le mie visite e che mal sopportava la vivacità di Silvanella, come se avesse pagato a sufficienza l'appartenenza alla sua famiglia con il suo matrimonio concordato, i figli che non le appartenevano e l'invasione di Nobilia, sua sorella, con due figlie femmine che le avevano creato problemi a non finire.
– Vai al circolo stasera ? – 
La domanda era retorica, serviva per entrare dentro le difese. Gaetano era girato verso il muro e sembrò non essersi nemmeno accorto della mia presenza. 
– Qualcosa che non va alla pasticceria ? – Cercavo di tenere un tono neutro nella voce ma dentro sentivo un'inquietudine feroce.
Poi lui si girò e mi guardò dritto negli occhi. 
– Dobbiamo trasferirci a Napoli – disse e aveva un'ombra nello sguardo che non avevo visto mai.
– Come sarebbe a dire – La voce quasi mi si era strozzata in gola.
– Dobbiamo andare a Napoli, Maria – 
– Questo me l'hai già detto Gaetano, ti sto chiedendo perché dobbiamo andare a Napoli –
Sentivo la rabbia che cresceva dentro di me, ma non volevo perdere la lucidità, qualcosa di grave stava accadendo e dovevo stare calma.
– Ho deciso che ci trasferiamo a Napoli, Maria, senza nessuna discussione – 
Gaetano mi aveva guardato con la cattiveria dentro gli occhi e poi tornò a sdraiarsi girato verso il muro.
– No Gaetano, tu le discussioni con me le fai – Mi ero avvicinata e volevo scuoterlo, costringerlo a girarsi per dirmi che cosa stava davvero accadendo.
– Hai capito che voglio delle risposte ? – gridai in preda al panico.
Avevo perso il controllo, avevo alzato la voce e non mi ero mai permessa di farlo con Gaetano.
Fuori dalla stanza Silvanella aveva sentito gridare e mi chiamava.
– Si tratta della mia vita e di quella dei nostri figli, di Silvana e della creatura che tengo dentro la pancia – dissi e avevo le lacrime agli occhi.
– Mamma è anziana e vuole che io torni a Napoli. Ci ha preparato l'appartamento sopra di lei a Poggioreale e poi ha comprato la pasticceria in Corso Garibaldi –
Aveva parlato lentamente, quasi sottovoce, senza girarsi, senza guardarmi, come se quelle fossero informazioni che non mi riguardavano ma che mi ero guadagnata con le mie grida.
Io invece volevo sapere perché la suocera che io non avevo mai visto, quella che non era venuta al mio matrimonio, la donna che aveva visto Silvana di nascosto mentre io ero a Magliano a seppellire mamma, ora disponeva della mia vita e di quella della mia famiglia come se fosse una cosa sua.
Aveva addirittura preparato casa.