Zia
Ata era rimasta vedova che era
ancora
giovane.
Si era sposata a Magliano con un Direttore delle Poste che
aveva da poco perso la moglie, morta di parto.
Lui era rimasto solo con i tre bambini e
nessun parente che potesse assumersi la responsabilità di
farli crescere senza una madre.
Si
era rivolto al Parroco e Don Giustino gli aveva consigliato
una
giovane di
buona famiglia che sicuramente sarebbe stata onorata di accettare.
Così, Severo Tibaldi, si presentò alla porta di
casa
dei
nonni e aveva un bigliettino dentro la tasca per ricordarsi il nome di
quella giovane donna, nome non proprio comune, nemmeno per quei tempi.
Il nonno ascoltò quello che il Direttore aveva da dire e poi
rispose che avrebbe avuto la sua decisione nel volgere di una
settimana.
In realtà nonno aveva già deciso: dal primo
momento in cui il Parroco gli aveva raccontato di
Severo, lui aveva pensato che fosse una gran fortuna, con tante scuse
alla buonanima della sua prima moglie che aveva lasciato anzitempo
questo mondo.
Ma nonno era un uomo tutto d'un pezzo ed era fermamente convinto che
non si
dovesse mai rispondere in modo impulsivo.
Meglio riflettere e dare l'impressione di una valutazione attenta.
Così
dopo una settimana,
nonno Sisto
tramite Don Giustino, invitò Severo Tibaldi e gli
annunciò
che acconsentiva alle nozze e gli concedeva la mano di
Anelata.
Nonna Cleofe fu incaricata di condurre la ragazza al
cospetto
del suo futuro marito e zia Ata seppe solo allora che presto avrebbe
dovuto abbandonare quella casa, lasciare i suoi fratelli, dormire nel
letto di uno sconosciuto e accudire ai suoi figli in una casa grande
che stava al lato della piazza di Magliano.
Neanche il tempo di sentire il suono della voce.
Avrebbe rivisto suo marito solo all'altare e poi in Municipio.
Dopo due anni, Severo fu promosso Ispettore e tutta la famiglia si
trasferì a Roma.
Tutta Magliano ricordava la loro partenza: i
tre figli
di lui con la faccia smarrita e Zia Ata che sembrava la loro sorella
maggiore.
Nonno Sisto aveva la bocca serrata e nonna Cleofe
piangeva tenendo intorno a se gli altri suoi figli.
La carrozza a cavalli portò la famiglia alla
Stazione di Terni e il
viaggio per Roma durò tutto il giorno.
Arrivarono a sera e
avevano
fuliggine nera negli occhi e dentro il cuore.
Roma era grande, piena
di gente e
gli inverni non erano freddi come a Magliano, così zia Ata
scoprì i mercati pieni di frutta e di verdura, seppe che
d'estate spirava un vento che attenuava l'afa e che la città
aveva mura che appartenevano a una antica Capitale di un
Impero
vasto e potente.
Severo era un uomo buono e amava i suoi figli;
assicurava a tutta la famiglia una vita agiata e i ragazzi ebbero, per
la
loro educazione, i migliori collegi Salesiani. Portava zia Ata
all'Opera
ed era un marito premuroso e rispettoso.
Nessuno seppe mai perché non ebbero altri figli.
Alle sorelle, zia Ata diceva solamente che i tre che aveva trovato le
davano già molto da fare.
Una domenica mattina, quando
erano a buon punto i preparativi per festeggiare il nuovo
secolo,
zia si
svegliò e trovò di fianco a sé
Severo, morto durante
la notte. Trombosi cerebrale, disse il
dottore e la notizia fu pubblicata addirittura sul giornale.
Contrariamente a quanto tutti si aspettavano,
zia Ata non ritornò a Magliano ma restò a godersi
una
libertà inusitata per una donna adulta di fine
diciannovesimo
secolo. Con la scusa del lutto rispose di no a tutte le richieste di
matrimonio che gli venivano sia da Magliano, sia dagli ambienti
raffinati a cui il marito l'aveva abituata. Cominciò a
studiare arte, partecipava a conferenze e andava
a visitare i luoghi dove la storia dell'antica Roma aveva lasciato
tracce millenarie.
I figli di Severo tornavano a casa dal
Collegio
solo il mese di Agosto ed erano ogni anno
più grandi e sconosciuti.
Zia, invece, andava a Magliano
solo per seppellire i morti e si lasciava dietro di sé i
pettegolezzi degli adulti e l'ammirazione delle bambine, affascinate
dai suoi vestiti lunghi e dalla nomea di donna libera e chiacchierata
che accompagnava le sue visite.
Mamma ci aveva raccontato mille
volte la storia del matrimonio di zia Ata.
Io e Assunta eravamo terrorizzate
all'idea che un giorno o
l'altro si sarebbe presentato a casa un vecchio con l'aria assonnata e
il pizzetto ben curato a chiedere a papà la mano di una di
noi.
Palma diceva invece che era affascinante lasciare
al destino
l'incarico di scegliere per noi ragazze da marito e non un guazzabuglio
di relazioni complicate.
Assunta replicava che se il destino
voleva dire un vecchio con l'alito cattivo allora era meglio andare al
fronte,
curare gli uomini che davano la vita per la nostra patria.
Lui, il destino, stava aspettando Palma in un pomeriggio di dicembre
quando la
carrozza che la riportava a casa insieme a papà
restò bloccata da una tempesta di neve. Si ripararono in un
fienile abbandonato e quando al mattino dopo i mezzadri riuscirono a
trovarli erano quasi morti di freddo tutti e due.
Io e Assunta capivamo
che
qualcosa di molto brutto stava capitando. Nessuno aveva tempo di badare
a noi.
Stavamo
nascoste dietro la grande madia tenendoci per mano e
guardavamo gli occhi
smarriti di mamma e tutte le donne della contrada che si affannavano in
casa nostra tenendo il fuoco sempre acceso nel camino, scaldando acqua
e panni puliti per fare impacchi di malva e di stramonio. Davano
ascolto
agli uomini che a turno si affacciavano per avere notizie e ricevevano
in cambio
richieste di altra legna da bruciare o carne di gallina e ossa di bue
per preparare il
brodo.
Dopo due giorni, quando finì di nevicare,
arrivò il
medico da Terni.
Rimase a lungo ad ascoltare il
respiro difficile di
papà e scosse la testa quando sentì la fronte di
Palma
che scottava come un braciere dentro una stanza.
Provarono in tutti i
modi a salvare Palma dal suo destino ma una mattina lei smise di
respirare e nello stesso istante papà ebbe la convinzione
che Dio, forse per la prima volta, aveva sbagliato.
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