La stanza era in penombra, illuminata debolmente da un abat-jour posato sul comò su cui era stato messo anche un foulard.
In terra, sopra un rialzo di metallo scuro, c’era un braciere pieno di tizzoni ardenti. Sedute intorno al fuoco, due donne vestite di un nero sbiadito.
Quando arrivai alzarono soltanto un poco gli occhi e il loro sguardo era impalpabile, fatto di polvere, che dopo un istante si stava già posando lentamente sul rosso tremolio di quelle braci.
Il fuoco nella stanza era soltanto un vano tentativo di portare via l’umidità che entrava nelle ossa.
Scaldava mani e piedi ma il resto era di marmo.
Era un inverno strano, aveva fatto caldo fino a metà novembre.
A Ottobre avevo addirittura portato i figli miei a prendere l’aria di mare e avevo anche lasciato che giocassero con la sabbia.
Silvana sembrava già una signorinella e se ne stava seduta insieme a me chiedendomi quando sarebbe nato il fratellino.
Giocava a fare la signora e ogni tanto sgridava Ferdinando, il bambolotto, per qualche marachella immaginaria.
Mario non stava fermo un attimo e non potevo mai girare gli occhi senza che lui corresse via.
Peppino invece stava vicino a me, l’aria smarrita, gli occhi che sembravano sempre sul punto di riempirsi di lacrime.
Era il più piccolo ed era sempre spaventato quando non era a casa sua, protetto dai suoi giochi.
Per il bel tempo prolungato, Nunzia teneva aperto lo stabilimento e preparava i maccheroni con il ragù.
Coroglio mi piaceva tanto e avevo sempre litigato con Gaetano che invece voleva a tutti costi andare a Mergellina.
Diceva che passata la collina di Posillipo c’erano solo cafoni e secondo lui il nostro posto era il Sea Garden, insieme ai damerini della Napoli bene.
Al Lido delle Sirene invece trovavi le famiglie con i bambini che si godevano un po' di spensieratezza, come se quella fosse la vita vera.
Io mi sentivo a casa mia e Nunzia era un’amica cara a cui potevo raccontare i miei dolori, quelli del cuore, ché gli altri li lasciavo senza considerazione.
Sembrava proprio che Dio volesse in qualche modo risarcirmi per tutti i guai che complicavano la vita mia e quella dei miei figli.
Davanti a noi poi stava Nisida, come una perla dentro la sua conchiglia e se strizzavo gli occhi riuscivo anche a vedere i pescatori.
Poi, a fine novembre, all’improvviso il vento aveva cambiato direzione, veniva dal mare e ci portava scrosci di una pioggia scura che non si era più fermata.
Con il passare delle settimane l’umidità aveva preso possesso delle case; la ritrovavi negli armadi, nelle lenzuola, dentro le maglie di lana che avevo messo via, rinvoltolate dentro a grandi teli di lino, per non farle ingiallire. I panni non si asciugavano mai, nemmeno se li mettevi direttamente dentro il fuoco.
Carmela arrivò a strapparmi via da quei pensieri e dietro di lei il figlio, un giovanotto cresciuto troppo in fretta.
Prese la borsa che tenevo ancora in mano.
– Tonino la mette nella stanza – disse, e sorrideva. Carmela era proprio una bella donna.
– Tonì, aggiungi pure carbonella dentro il braciere – La voce si era alzata per inseguire il figlio che era già sparito lungo il corridoio.
Io ancora stavo zitta. Ero ingombrante con la mia pancia enorme e non volevo aggiungere altro ingombro in quella stanza dalla luce incerta.
– Venite Maria che ci facciamo quattro chiacchiere – 
– Vorrei andare prima in bagno, Carmilina – La voce mi era uscita come un soffio ed era faticoso mettere dentro i polmoni tutta quell'umidità invece dell’aria.
– E come no. Il bagno vostro è proprio nella stanza – 
Sparì anche lei nel corridoio.
Io avevo bisogno di più tempo per cominciare a muovere le gambe.
A sera si gonfiavano ed era difficile spostarle con tutto il peso che si dovevano portare.
In realtà volevo solo stare un poco seduta, togliermi le scarpe e rimanere sola per un momento ancora. Solo un momento.
Entrai dentro la stanza e Carmilina mi fece la cortesia di aiutarmi a togliere il cappotto. Poi uscì e chiuse la porta.
Entrai nel bagno e per un attimo rimasi immobile, con gli occhi chiusi, ad ascoltare il battito del cuore e non sapevo se era il mio o se era quello della creatura che mi portavo dentro. Poi mi sciacquai il viso e tornata nella stanza, mi misi seduta sopra il letto, guardando il copriletto ricamato. 
Avrei voluto levarmi i panni di dosso, restare completamente nuda e infilarmi dentro le lenzuola, magari dopo che si erano scaldate con la brace.
Avevo sempre avuto questa mania del lino morbido a contatto diretto con la pelle.
Gaetano usciva pazzo quando veniva a letto e mi trovava vestita soltanto di pensieri.
Feci un sospiro.
Mi venne in mente mio papà. Diceva che non bisognava sospirare, diceva che ogni volta che si sospirava c'era qualcuno che stava morendo. 
Io e Assunta ci guardavamo con aria complice e poi ci mettevamo nel fienile, nascoste dietro al bancone degli attrezzi.
Con gli occhi chiusi e tenendoci per mano ci facevamo tre o quattro sospiri. Dopo ci sentivamo un poco in colpa per quei poveri cristiani che erano morti per colpa nostra ma era più forte di noi, non potevamo resistere a quei sospiri.
Era il nostro segreto.
Mi alzai dal letto e pure dal fienile lasciando Assunta, papà e la mia voglia di rotolarmi nuda dentro le lenzuola. Carmela mi stava aspettando.
Quando arrivai in cucina aveva messo la caffettiera sopra il fuoco.
– Marì, volete una tazza di caffè? –
– Grazie Carmela ma da quando sono incinta non riesco più a sentire nemmeno l’odore del caffè – 
Carmela si affrettò ad alzarsi per togliere la caffettiera da sopra la raggiera della cucina a legna.
– No, per carità, lasciate pure stare – Alzai anche la mano per fermare la cortesia che mi stava facendo.
– Un poco riesco a sopportarlo e poi, voi lo sapete, non è che a casa mia abbiano tutta questa considerazione –
Carmela non mi ascoltò nemmeno, tolse la caffettiera e la mise dentro il lavello di granito.
– Non dovevate disturbarvi Carmilina – dissi un poco dispiaciuta. In realtà ero contenta che non mi avesse dato ascolto.
– Siete voi che non dovete preoccuparvi Maria – sorrideva e per la prima volta il suo sorriso entrava dritto dentro il cuore e mi scaldava
– Avete già abbastanza preoccupazioni, ci manca solo il mio caffè –
Si stava proprio bene in quella cucina. La legna sempre accesa riempiva tutta la stanza con un calore che non aveva odori.
Ma forse stavo bene perché stavo seduta o forse perché la stanza assomigliava alla cucina di casa mia, a Roma.
– E come vi sentite? – Di nuovo Carmela aveva spezzato i miei pensieri ma era un bene perché da qualche tempo mi incantavo, come se ci affogassi nei pensieri.
– Ho sempre le gambe gonfie e poi con questo umido devo coprirmi bene e allora questa pancia diventa una fatica –
– Immagino – rispose lei ma l’espressione diceva che immaginava soltanto il peso di quello che stavo per fare.
– Maria, vi debbo chiedere se siete sicura di quello che mi avete detto – Carmela aveva un'espressione seria.
Capivo che in quel momento era la levatrice che parlava.
Non era la donna che aveva ascoltato il mio racconto soltanto qualche mese prima, senza interrompere mai neppure per una domanda inutile.
Sono sicura Carmilina, tanto sicura che venendo qua volevo buttarmi sotto alla carrozzella, lasciare che i cavalli schiacciassero questa mia vita inutile, lasciando a Dio il compito di scegliere tra me e la creatura che pagherà la colpa dei miei errori.
– Voglio dirvi che in qualsiasi momento potete ripensarci –
Mi accorsi che non avevo risposto alla domanda e Carmela mi guardava ed era quasi preoccupata.
– Si, assolutamente – La voce mi era uscita come un colpo di tosse ed ero quasi senza fiato.
Presi la mia borsetta così potevo nascondere a Carmela la mia paura per quelle due parole.
Cercai la busta e la misi sul tavolo.
– Ci sono i soldi Carmilina –
Lei mi fissò ed io mi imposi a forza di non abbassare gli occhi.

Gaetano l'avevo conosciuto a Roma ed erano quasi dieci anni che eravamo sposati. 
Dopo la morte di papà eravamo andati a vivere da una sorella della mamma e quella città mi aveva entusiasmato fin dal primo istante.
Assunta invece non si era mai abituata a tutta quella gente rumorosa. A lei mancavano le corse in mezzo ai campi e il fuoco sempre acceso nel camino.
Una notte mi svegliai e la sentivo piangere.
- Tina ma che ti succede? - 
- Mariè, io non ci voglio stare qui, voglio tornare a casa nostra  –
Mi ero messa dentro nel suo letto e lei si era girata e mi abbracciava forte. Sentivo i suoi singhiozzi mentre nascevano da dentro la sua pancia.
Sentivo che salivano scuotendo il corpo di quella mia sorella fragile.
– Ma è successo qualcosa? Tina, a me lo devi dire  –
– No, non è successo nulla.  – Le lacrime le uscivano come fontane aperte.
– E' solo che non ce la faccio proprio a stare qua, voglio tornare a casa  –
– Ma Tina è questa ora casa nostra  –
– No Mariè, questo è un posto di pazzi –
– Vedrai ti abituerai, abbiamo la possibilità di incontrare tanta gente  – 
– Mi sento sola Maria, mi sento disperata  –
– Non sei sola Assunta, ci sono io, c'è mamma, c'è zia Ata..  –
Restò in silenzio singhiozzando per qualche minuto.
- Mi manca papà Maria, mi manca tanto  –
Papà si era ammalato di malinconia dopo che era morta Palma.
Lei era la sua figlia prediletta, quella che portava il nome di sua madre.
Io e Assunta non eravamo gelose per quella differenza.
Papà aveva per noi la tenerezza e le attenzioni che nessuna delle nostre amiche di Magliano poteva immaginare.
Ma Palma era diversa, era bellissima e i giovanotti la guardavano con gli occhi spalancati.
Papà faceva il burbero e ogni tanto prendeva a male parole chi si azzardava a salutare quella sua figlia delicata.
Poi, però, era orgoglioso e spesso avevo sentito che raccontava a mamma come per strada la gente si girasse per guardarla e lui era felice.
Quando la febbre e la polmonite se la portarono via, papà semplicemente smise di vivere, come se non sapesse più come si fa a respirare e dovevamo ricordargli noi di farlo, ogni minuto.
– Non siamo sole Assunta. Non lo saremo mai  – le dissi.
Restai tutta la notte nel suo letto cercando di proteggerla da quel dolore forte.
Era la stessa cosa che aveva fatto lei con me, quando a Magliano io mi svegliavo in piena notte, terrorizzata dalla guerra e lei mi abbracciava forte e mi diceva di non aver paura perché la guerra era lontana e si portava via soltanto gli uomini. 
Io e Assunta potevamo contare solo su di noi perché mamma non aveva tempo per occuparsi dei nostri dolori.
Aveva i suoi e aveva la responsabilità di due figlie femmine da sistemare.
I soldi grazie a Dio non erano un problema, papà era stato un uomo previdente e il podere ci permetteva di vivere in città senza preoccupazioni. Assunta stava a casa, cuciva abiti in cotone per le bambine orfane di guerra. Io invece andavo a scuola dalle Monache e mamma mi accompagnava e mi veniva a riprendere. A volte ci fermavano alla Pasticceria e io mi compravo il pane al cioccolato.
Dietro il bancone c'era un giovanotto bruno.
Aveva gli occhi neri e mi guardava come si guarda un fuoco che può bruciare una città intera.

Carmela era una donna forte che non si spaventava mai.
Lo aveva detto Nunzia, i primi di giugno, quando le avevo raccontato quello che stava succedendo ed io l'avevo letto nei suoi occhi quando lei arrivò a casa mia.
Era giovane per fare quel lavoro, io ero abituata alle mammane con i capelli bianchi, invece lei aveva solo qualche anno più di me e il nero dei capelli sembrava quello delle notti di Magliano. Volevo raccontarle una bugia, dirle che i soldi erano finiti e che una bocca in più non era proprio sostenibile.
Invece le raccontai della tragedia che stava sconvolgendo la mia vita, le dissi di Gaetano, delle sue scappatelle che erano iniziate quasi subito. Le dissi delle bugie che raccontava quando tornava a casa e aveva addosso ancora il profumo delle zoccole che frequentava al circolo.
Le raccontai anche del trasferimento a Napoli voluto da una vecchia senza cuore che aveva cominciato a odiarmi prima ancora di conoscermi.
Lei mi ascoltava senza fiatare però dentro ai suoi occhi io riuscivo a leggere qualcosa di prezioso, più di tutto l'oro del mondo: la solidarietà.
Le dissi proprio tutto, anche della paura di perdere i miei figli e lei mi disse solo che casa sua era aperta ventiquattro ore al giorno per tutti i giorni che Dio metteva in terra. Appena fosse arrivato il tempo dovevo solo trasferirmi là e non pensare a nulla.
E il tempo era arrivato tra quella pioggia che non finiva mai.
Avevo mandato Nicolino, il figlio della Signora Amelia, ad avvisare Carmela che il momento era arrivato. Avevo partorito già tre volte e conoscevo bene quella tensione dentro la pancia che preannuncia i primi dolori. Era come se la creatura avesse cominciato a bussare alle pareti del suo mondo. Avevo preparato la mia borsa da viaggio con la biancheria e la tovaglia e avevo messo dentro anche la foto di papà con Palma che lo abbracciava e Assunta seduta sulle gambe che lo guardava. Volevo che fossero anche loro testimoni. 
Nicolino era tornato e aveva detto che mi aspettavano, che non c'erano problemi.
Avevo lasciato i bambini a casa di mia suocera, Amelia li aveva accompagnati ed ero sicura che per riaverli avrei dovuto presentarmi di persona ma avevo un problema più importante da risolvere.
Mi accompagnarono Amelia e Nicolino con l'automobile di un loro conoscente e Carmela era in strada ad aspettarmi.
– Dovete mangiare qualche cosa Maria –
Dissi di no, che non avevo fame e In quel preciso istante sentii la carne dentro di me che cominciava a urlare. Per una manciata di secondi rimasi senza fiato, con gli occhi chiusi. Poi, così come era arrivata, la contrazione se ne andò.
Era un dolore indescrivibile. Prendeva tutto il corpo e sembrava che anche l'aria intorno a me facesse un male da morire. Tutte le volte mi tornava in mente quello che aveva detto mamma quando avevo partorito Silvanella: "i dolori del parto il corpo se li scorda e te li scorderai anche tu". Altrimenti la razza umana si sarebbe estinta da chissà quanto tempo.
Carmela si era avvicinata e mi guardava senza dire una parola. Quello era il suo mestiere, guardare, osservare e poi decidere che cosa fosse necessario.
– E' durata tanto, è la prima che avete Maria?  –
– Si Carmilina, forse è meglio che ci prepariamo  –
– Vi accompagno nella vostra stanza  –
Qualcuno aveva già tolto il copriletto ricamato e aveva messo anche uno scaldino in mezzo alle lenzuola.
Carmela mi aiutò a togliermi i vestiti e una delle donne che avevo visto nell'altra stanza venne a portarli via e poi tornò ad aggiungere altra carbonella nel braciere.
Misi la mia camicia da notte di lino bianco, la stessa che avevo quando era nato Peppino.
Ero esausta prima di cominciare.
Carmela mi guardò le gambe mentre io tenevo gli occhi chiusi e per la prima volta sentivo la paura che mi toglieva il fiato.
– Il sacco è ancora intero Maria, ma c'è già un po' di dilatazione  – Aggiunse che secondo lei c'era ancora tanto tempo.
Mi ricoprì con una coperta calda e quel tepore mi rilassò. Restai ad occhi chiusi e Carmilina mi prese la mano, si avvicinò tanto che sentivo il caldo del suo viso.
– Io sono qui solo per voi Maria. Il mondo fuori non esiste più per tutto il tempo in cui saremo qui. Io e voi abbiamo la stessa pancia, le stesse lacrime e gli stessi dolori – Poi uscì lasciandomi da sola ad assaporare il caldo delle sue parole.

Durante un inverno nemmeno troppo freddo, mamma si ammalò e stava davvero male.
Il medico aveva detto che bisognava stare attenti perché girava un'influenza grave; nessuno ne parlava ma lui sapeva che c'erano già state delle persone che erano morte.  – Persone povere  – aggiunse  – Soldati tornati dalla guerra  – 
Mamma aveva la febbre alta e zia le dava l'aspirina che il medico aveva lasciato dopo averla visitata.
Rimasi a casa un paio di giorni ad aiutare ma poi zia Ata disse che dovevo andare a scuola.
Lei non poteva accompagnarmi ma tanto "La strada la conosci e ormai sei grande".
Uscii da sola per la prima volta; ero felice, ero eccitata e mi sentivo in colpa per quella mia felicità che aveva in qualche modo origine dalla malattia di mamma.
La mia felicità aveva un'unica ragione: la pasticceria, il pane al cioccolato e i due occhi neri che mi sorridevano.
Da qualche tempo era diventata una fermata fissa e mamma faceva probabilmente finta di non accorgersi che il giovane dietro al bancone mi aspettava.
Ci scambiavamo solo sguardi ma spesso il pane al cioccolato che mi dava lo andava a prendere dietro al laboratorio e aveva una forma che ricordava un cuore.
Alcune volte avevo trovato dentro l'incarto un bigliettino: "I Vostri occhi mi rincorrono e non posso più fuggire" oppure semplicemnte "ditemi il Vostro nome".
Io conservavo quei biglietti come reliquie dentro la scatola con le fotografie di papà e i miei ricordi di bambina.
Nemmeno Assunta sapeva di questo giovanotto con gi occhi neri come la notte.
Correvo sola per le strade di Roma e arrivai alla pasticceria col cuore in gola. 
Andai verso il bancone: ero decisa a dirgli finalmente il nome, il mio nome e lungo la strada avevo provato mille volte a dirlo, a come volevo dirglielo.
Invece lui non c'era.
Rimasi ferma per un momento perché non ci credevo.
Proprio quel giorno, proprio il momento in cui avrei potuto rispondere ai suoi sguardi lui non era dove lo avevo sempre visto.
Mi girai a guardare intorno con una frenesia che non avevo mai provato, come se il tempo stesse per finire e quella fosse l'ultima occasione per dire o fare qualcosa di importante. Mi veniva da piangere e feci per uscire dal locale quando sentii una mano che mi toccava il braccio.
– State cercando me, signorina?  – e poi senza lasciarmi il tempo di rispondere disse che si chiamava Gaetano.