Mia madre è nata in una Napoli lontana, una città che aveva cuore e mare. Nei suoi racconti sentivamo il caldo delle porte aperte, delle persone che non si limitavano a vivere vicino alla sua casa ma diventavano famiglia, condividevano la vita, erano presenti quando nascevano i bambini e si riunivano per salutare i morti. Quella città ci era familiare, la trovavamo intatta dopo le notti passate sul sedile posteriore della seicento blu, il thermos pieno di caffè, la mamma che non si addormentava mai e le valige sopra il portapacchi. Il viaggio in autostrada sembrava non finire mai: il buio della notte era squarciato soltanto dalle luci un po' spettrali degli svincoli, degli autogrill o delle aree di parcheggio, dove ci fermavamo per mangiare e permettere a mio padre di riposarsi un poco. Poi, alle prime luci del mattino, arrivavamo a Napoli ed era un vero e proprio evento. Sembrava che Milano fosse un luogo così lontano e irraggiungibile che tutti volevano vedere "i milanesi", quelli che avevano annullato una distanza siderale. Non erano solo i cugini: erano i vicini, i ragazzini che vivevano per strada e Napoli era case, stanze con le finestre aperte ma soprattutto strade. Ci sentivamo osservati, come se fossimo davvero stranieri provenienti da un universo sconosciuto. Durava poco. Appena mio padre si era riposato, cominciava quel vivere con la porta aperta e la tavola costantemente apparecchiata che avremmo raccontato a lungo nelle nostre sere nel freddo di Milano, attorno alla nostra tavola rotonda. La zia Nunzia con i suoi racconti coloriti che ti faceva ridere anche se non capivi tutto quello che diceva, la zia Emma che ci accoglieva sempre con bicchieri colmi di acqua fredda e latte di mandorla, la gita a San Gerardo per visitare il Santuario, e poi il mare ma soprattutto le giornate intere passate intorno a un tavolo, il pranzo che finiva con la cena solo perché era bello e necessario stare insieme, parlare, raccontare. Ed eravamo tanti. Ogni famiglia aveva figli in abbondanza e c'era una cugina che si chiamava Anna in ognuna delle famiglie dei fratelli di papà. La nonna Nannina sembrava consapevole che sarebbe sopravvissuta in tutte le bambine che avevano il suo nome e noi non avevamo idea che le persone potessero morire. La nonna la ritrovavamo sempre nella stessa stanza, vecchia da sempre, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia dietro la nuca. A volte li srotolava ed erano incredibilmente lunghi e lei li pettinava con lentezza, sprecando tutto il tempo che voleva, lusso guadagnato con una vita dedicata a una miriade di figli, alcuni suoi, alcuni del marito, il nonno di cui io porto nome e cognome e che era morto tanti anni prima cadendo da un'impalcatura. Sembrava quasi che a Napoli vivessero sempre così, sempre stipati dentro le cucine coi tavoli imbanditi, le donne a cucinare, gli uomini a fumare e noi bambini fuori, per le scale, oppure in strada a vivere la libertà di essere in una città piena di gente che ci conosceva. E tutto era così simile ai racconti dei nostri genitori: erano le stesse strade, le stesse case, i portoni, i cortili pieni di piante, "'o guardaporte", l'acquaiola.. Certo, non c'era più la guerra, la povertà, la fame e noi bambini andavamo a scuola mentre mio padre lavorava quando aveva solo qualche anno più di me. Ma quella gioia di essere insieme, la sensazione di condivisione, quella certezza che intorno a te ci fossero persone, quelle sì, erano le stesse dei racconti della mamma. Quella sì, era la città che vedevamo negli occhi di mio padre.