Il ragazzo girò il suo sguardo verso il bambino fermo in cima alla scaletta.
La luce fuori dal carrozzone era quella violenta dell'estate milanese e la penombra dell'interno non facilitava la visione.
- Ciao. - disse, stringendo gli occhi.
La voce era piacevole, quasi allegra. Salutando aveva anche sorriso e il viso si era illuminato. Aveva spostato qualcosa sul bancone e la polvere era volata via e mulinava intorno ai raggi di sole che sembravano fili dove si potevano stendere i panni ad asciugare.
Il bambino fece un passo avanti nella penombra e si rimise in attesa senza spostare gli occhi dal ragazzo. Quel passo era un primo gesto di fiducia per il saluto ricevuto; non era ancora tempo di rispondere: ancora non erano chiari i ruoli, ancora non sapeva se era stato scoperto prima ancora di commettere il suo piccolo reato. Quell'uomo poteva essere il garzone che smontava il baraccone quando era ora di trasferirsi in altro luogo o poteva addirittura essere il padrone; c'era quindi una complicazione e la prudenza doveva essere massima.
Il bambino era indeciso: da un lato l'istinto gli diceva che doveva scappare e che tutto era perduto. Dall'altra parte invece il rammarico bruciava: era già stato li qualche giorno prima e il carrozzone era sembrato immenso. Aveva esplorato l'interno con due amici e nei giorni seguenti aveva avuto un unico pensiero: tornare da solo. Il piano era facile e sarebbero bastati cinque minuti.
E invece c'era quell'intruso.
Si permise un rapido sguardo oltre l'esile figura del ragazzo: quello che cercava era li, a portata di mano.
Respirò forte l'aria calda e spessa che ristagnava dentro il carrozzone e deglutì la sua paura riportando lo sguardo fisso sul ragazzo.




Il nostro terreno di avventura cominciava a diventare pericoloso. La chiusura del palazzo della Gazzetta dello Sport che si trovava proprio dietro il terrapieno, aveva allargato la terra di nessuno. Ora c'era un tetto a disposiizione di chiunque non avesse una dimora. Ci era già capitato di trovare giacigli improvvisati nel folto della vegetazione; la nostra fantasia si era scatenata generando ladri o assassini ricercati da tutte le polizie del mondo. In realtà aumentava la paura e con l'inverno avevamo diradato le nostre incursioni.
Un giorno, con i gemelli Lozupone scendemmo lungo un sentiero appena riconoscibile che portava nel cortile del palazzo vuoto che aveva probabilmente ospitato rotative e uffici. Era un gesto di un coraggio inaudito. Ne avevamo parlato molte volte cercando di scoprire se la paura che avevamo fosse la stessa degli altri componenti della banda. Nessuno si era mai azzardato ad incamminarsi verso il palazzo buio. +

Quella volta ci ritrovammo in tre e senza dire una parola cominciammo a scendere per ritrovarci in un cortile lungo; le pozzanghere formate dalla pioggia dei giorni precedenti erano estese e l'acqua era sporca e nera. C'erano bancali di legno marcio ammassati lungo il terrapieno, sedie rotte sparse, come se qualcuno si fosse divertito a gettarle dalle finestre. E vetri rotti dappertutto. Da una parte un grande cancello chiudeva l'edificio dal lato della strada. Davanti a noi invece un'apertura enorme che sembrava una bocca spalancata. Era la ferita che permetteva di accedere all'interno del palazzo. Le porte parzialmente divelte pendevano appoggiate ai muri in maniera scomposta: una spalancata in fuori che copriva in parte una finestra bassa con un inferriata fitta e i vetri rotti e l'altra invece spinta all'interno, con i cardini divelti e fuori della muratura. Dentro, la luce che filtrava dai finestroni mostrava un ambiente simile a quello dove ci eravamo fermati per guardarci in giro e per fermare il battito furioso del cuore: pozzanghere e detriti coprivano gran parte del pavimento. Il soffitto alto e lunghe colonne simmetriche lasciavano pensare al luogo in cui le rotative avevano rumorosamente sfornato il giornale per anni e anni, fino a quell'oblio umido e desolato. Noi bambini allora non potevamo sapere e quell'ambiente ci sembrava un antro spaventoso, squarciato da una mano enorme che aveva grattato via tutto quanto vi era contenuto facendo esplodere tutte le finestre i cui vetri erano sparsi dappertutto.
Ci guardammo tutti e tre dopo aver a lungo scrutato l'interno al riparo della porta aperta sull'esterno. Quel luogo era desolato e di sicuro non c'era nulla da scoprire.
- Torniamo indietro ragazzi che qui non ci sta niente -
Mario aveva parlato con la voce solo leggermente tremolante.
- Ora siamo qua e qua dobbiamo rimanere - Nicola sfoggiava un coraggio che derivava probabilmente solo dal timore evidente del fratello.
Guardando verso destra, vedemmo che dietro quello che ci era sembrato solo un pannello di legno appoggiato alla parete c'era un'apertura che portava all'interno dell'edificio, probabilmente in una zona diversa dal grande vano delle rotative. Corremmo tutti e tre verso quell'insperato indizio che la nostra avventura poteva avere un esito diverso da quel desolato antro pieno di vetro e di pozzanghere. Entrai per primo seguito dai gemelli e il locale che esplorammo era piccolo e buio ma dalla parte opposta all'apertura c'era una scala che saliva verso destra. La stanza era vuota ma era chiaro a quel punto che avremmo proseguito e così salimmo le scale arrivando al piano superiore, dimenticando completamente la paura.
Ci ritrovammo in un atrio largo che aveva due porte spalancate su due ampi locali con piccoli muretti. C'erano i soliti vetri per terra e qualche sedia rotta: non un granché per la nostra spedizione esplorativa. Attraversammo uno dei due locali perché avevamo visto un'altra porta infondo. Passammo tra i muretti guardandoci intorno a quel punto anche un po' delusi. La nostra avventura non aveva fino a quel momento dato risultati e non avremmo avuto nulla da raccontare al resto della banda. Nulla che potesse dimostrare che noi tre non avevamo paura di nessuno. La porta infondo era socchiusa e senza esitare aprimmo. Quello che vedemmo non ce lo aspettavamo.
La stanza era piccola con una finestra in fondo. Un materasso e un cuscino neri di sporcizia erano sul pavimento addossati ad una delle pareti. Nello spazio esiguo libero dal giaciglio c'erano tre sedie quasi integre. Sopra una delle sedie c'erano degli abiti e sotto la finestra un borsone dal quale uscivano altri vestiti. In terra qualche bottiglia vuota e resti di cibo.
Restammo un po' a guardare quella stanza e dentro di noi pensammo subito ad un assassino: non poteva che essere un assassino quello che viveva li. Magari avremmo trovato la pistola se avessimo frugato tra le sue cose oppure avremmo potuto chiamare la polizia e farlo arrestare. Eravamo comunque davanti ad una scoperta sensazionale. Ma eravamo anche paralizzati dalla paura.
- Sciamm'a cas - Nicola aveva rotto il silenzio carico di tensione e lo aveva fatto parlando direttamente in dialetto.
Il suo interlocutore era il fratello Mario ribaltando completamente la situazione precedente in cui era lui quello coraggioso.
Mario si voltò a guardarlo ma non riuscì a dire nulla perché da una porta del locale con i muretti un uomo alto con i capelli neri era apparso improvvisamente. L'uomo ebbe solo un attimo di esitazione e poi si mise a correre verso di noi gridando - Che cazzo fate voi, chi siete ?!!-
Fu questione di un secondo e ci ritrovammo a correre verso la scala e poi fuori nel cortile con il cuore in gola e una paura folle. L'assassino ci aveva scoperto e ci avrebbe sicuramente ucciso. Era un assassino, che altro poteva fare.
Sentivamo ancora la sua voce che gridava - Ehi fermi -  e avere quella voce dietro di noi ci rassicurava un poco. Voleva dire che stavamo correndo nella giusta direzione.
Fuori nel cortile cercammo disperatamente l'imbocco del sentiero che ci avrebbe portato in cima al terrapieno. L'avevamo superato e così tornammo indietro con la paura di trovare l'assassino a sbarrarci la strada. D'improvviso Mario inciampò e rotolò sui vetri, finendo lungo disteso nell'acqua scura e sporca della pozzanghera più grande. Con i palmi delle mani coperti di sangue e nero d'acqua, si rialzò con il terrore dipinto sul viso e Nicola che si era già arrampicato sul costone gli gridava - Fusce Mario fusce c'a c'accire - Mi voltai verso Mario e gli gridai anche io di fare in fretta e lo aiutai a salire sul muretto e poi lo spinsi avanti restando paurosamente l'ultimo dei fuggitivi.
Il primo per chi ci rincorreva.
Con il cuore in gola arrivammo in cima e poi correndo senza fermarsi mai fino alla discesa dall'altra parte, verso le nostre case. Ci fermammo solo quando avevamo attraversato lo stradone ed eravamo terrorizzati e scossi. Mario Lozupone era bagnato e aveva sui palmi delle mani lunghi tagli da cui usciva sangue. Tremava per il freddo e la paura e teneva le mani a mezza altezza come per controllare che fossero davvero le sue. Per i gemelli era pronta una prova molto più difficile di tutte quelle che avevamo vissuto: dovevano affrontare il padre e raccontargli cosa era successo.
- Non dobbiamo più tornare alle Varesine - Dissi - Se quello ci riconosce ci ammazza. -
Nella nostra logica di bambini eravamo convinti che l'assassino ci avrebbe cercato e sarebbe stato oltremodo facile trovarci e portare a termine il suo intento criminale. Non ci passava neanche per la testa che quello potesse essere il rifugio di un barbone che aveva avuto timore di essere derubato. O forse con la nostra fantasia eravamo andati vicino alla verità e quell'uomo era davvero un poco di buono. E il rischio che avevamo corso era stato grande. Ma quello era il nostro mondo e quelle erano le avventure che ci facevano tremare e gioire allo stesso tempo. I fratelli Lozupone da quel giorno non ebbero più la libertà di cui avevano goduto fino a quel momento. Il padre li aveva probabilmente puniti e forse anche picchiati. Dopo qualche tempo chiusero il negozio e si trasferirono da qualche altra parte.
Rimasi solo con la paura dell'assassino che mi accompagnò per mesi e non rimisi più piede sul terrapieno fino a quando non accadde qualcosa che cambiò la vita dei bambini delle Varesine.