La mattina
dopo scesi a
fare
colazione quando i bambini avevano
già lasciato la camerata. Era inusuale che fossi l'ultimo.
Normalmente ero in piedi prima di tutti quanti per aiutare
Maddalena. Lei apprezzava e mi trattava come se fossi un suo collega,
un suo amico di vecchia data. Maddi era una ragazza senza grilli per la
testa. Lavorava per pagarsi gli studi universitari e aveva due genitori
anziani che la adoravano. Lei era molto fiera di suo padre e sua madre.
Me li fece conoscere quasi subito e loro mi accolsero come se fossi un
figlio. Durante il turno rimasi varie volte a mangiare presso di loro e
la loro casa, all'ingresso del paese, mi metteva addosso la
tranquillità che solo un posto familiare poteva
darti.
Parlavamo molto durante le passeggiate e lei mi raccontava la sua vita
come se io fossi un suo coetaneo e non un ragazzino di quattordici
anni. Io le raccontavo delle mie paure e di come la colonia avesse
un'importanza basilare per tutto quello che mi era accaduto durante i
soggiorni precedenti.
Un giorno tornò dal suo turno di libero molto turbata.
Maddi era sempre pacata e tranquilla come se niente riuscisse a
scalfire il suo equilibrio. Molte volte avevo apprezzato la sua
capacità di affrontare tutte le piccole
difficoltà del suo lavoro con una leggerezza estrema.
Capitava spesso, per esempio, che qualche bambino si facesse male.
Erano quasi sempre piccole abrasioni senza importanza ma che esigevano
attenzione in caso di particolare fragilità
del bambino. Avevo visto molte
assistenti sbagliare dando troppa importanza ad una ferita da nulla o
troppo poca per qualcosa che necessitava considerazione per l'ansia
che generava nei bambini. Spesso mi ero ritrovato a dover consolare
qualcuno
che non aveva avuto la giusta attenzione dalle assistenti. Maddi
invece era perfetta: sembrava avere la loro età quando si
trattava di capire e la tranquillità da adulta per agire.
Vederla in difficoltà fu una sorpresa.
Aveva lo sguardo perso e gli occhi rivolti verso il basso. Lottava
contro le lacrime e solo la sua grande dignità non le
permetteva di lasciarsi andare. Mi prese una grande inquietudine: non
sapevo cosa fare, non sapevo se andare via o rimanere, se parlarle o
restare zitto. La guardavo ed ero incapace di fare qualsiasi cosa ma
dentro di me sapevo che qualcosa dovevo fare. Lei mi guardò
con occhi tristi. - Non preoccuparti - disse - Non è nulla,
poi ti spiego -
Riprendeva servizio ufficialmente alle nove la sera, con i bambini
già tutti a letto e pronti a dormire. Venne nel mio box
ancora vestita con una maglia chiara e una gonna al ginocchio, scura
come le scarpe basse. Scure come la sua faccia.
- Mio padre non sta bene - mi disse scoppiando in lacrime. Si
buttò letteralmente fra le mie braccia come se fosse l'unico
luogo in cui era possibile lasciare spazio a quelle emozioni che non
erano consone al suo equilibrio. Piangeva silenziosamente,
probabilmente per non svegliare o allarmare i bambini che, oltre i teli
bianchi del mio box, avevano intuito che il controllo era allentato
quella sera e si permettevano chiacchiericci sfrontati. Non dissi
nulla, non sapevo cosa dire. Era una cosa troppo
più grande di me e poi aspettavo che mi dicesse qualcosa in
più.
Rimanemmo a lungo abbracciati ed io le accarezzavo la testa come aveva
fatto Alessandra con me. Mi chiedevo che cosa potessi fare in
più per Maddalena e mi dicevo anche che era incredibile
tutto quello che mi stava succedendo. Le persone che avevo intorno si
relazionavano con me, mi abbracciavano, mi cercavano, piangevano con me
oppure semplicemente mi parlavano come se io fossi uno di loro. Ero uno
di loro. Vivevo con persone che mi riconoscevano un ruolo, che mi
parlavano dei loro problemi e che ascoltavano i miei. Nel mio mondo
milanese questo non succedeva, non era ancora possibile
perché tutti quelli che conoscevo erano interessati al
calcio, alle moto e il massimo della relazione era prendersi a botte.
Le ragazze poi erano degli esseri misteriosi: la Fulvia, la Patrizia,
la Graziella... apparivano in gruppo e riuscivamo a scambiare con loro
solo qualche occhiata e il rossore delle guance.
Con Maddalena abbandonata tra le mie braccia pensavo che al mio ritorno
avrei cercato persone come lei, come Rita, come Elena. Dovevano esserci
anche a Milano persone così. Dovevo solo continuare a
essere me stesso, cercare quelli che sapevano ascoltare, che sapevano
parlare.
- Domani mattina ha un controllo radiografico - disse quasi sussurrando
e senza lasciare il rifugio sicuro delle mie braccia. - Ho paura sai -
continuò - Non so che cosa devo fare -
Rimasi zitto. Non sapevo che cosa dire. Mi sembrava però che
in una situazione come quella, la cosa migliore fosse parlarne con la
Signora Bianca e restare a casa per accompagnare suo padre.
Si staccò dall'abbraccio con un movimento lento. Prese un
fazzoletto nascosto in una delle maniche della maglia e si
asciugò le lacrime dalle guance. Non aveva trucco, non lo
aveva mai.
- Perché non ne parli con la Signora Bianca ? - Dissi
- Ci ho pensato - La voce si era leggermente incrinata, come se le
lacrime fossero ancora copiose dietro i suoi occhi.
- Ma domani non c'è possibilità di sostituzione -
Maddalena aveva già fatto il calcolo delle assistenti che
avevano il giorno libero. Era un mercoledi ed era il giorno in cui
sarebbero mancate Grazia e Simonetta.
- Allora andiamo in passeggiata a Gurreno, e tu potrai andare a casa
mentre io rimarrò con i bambini - L'idea mi era venuta in
quel momento. Vicino a casa sua c'era uno dei pratoni dove i bambini
erano lasciati liberi di scorrazzare senza problemi. La passeggiata
era abbastanza lunga ma aveva casa sua letteralmente ai limiti del
pratone e poteva controllare la situazione dalle sue finestre.
- Lo faresti ? - Aveva gli occhi umidi e si vedeva chiaramente una luce
che si era accesa improvvisamente.
Non risposi, la abbracciai di nuovo tenendola stretta e suggellando in
questo modo un'intesa e un'amicizia che per lungo tempo si
consolidò in lettere che ci scambiammo per molti anni.
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Scesi in
refettorio per
la
colazione che già stavano distribuendo il latte. Grandi
pentoloni venivano messi su carrelli di legno coperti da teli bianchi.
Le inservienti versavano il latte leggermente brunito dall'orzo e
consegnavano le ciotole ai bambini con un panino fresco di
forno. La colazione era tutta in quel latte e quel pane fragrante.
L'unica possibile variazione era il the per chi non digeriva
il
latte.
Mi fermai all'ingresso e guardai le tavolate affollate di bambini
affamati. Le assistenti stavano nei tavoli in fondo, tutte insieme,
godendosi quel breve momento di relazione tra di loro.
Avevo una sensazione di disagio che non riuscivo a definire. Mi ero
svegliato con la netta sensazione che avrei voluto girarmi dall'altra
parte e riaddormentarmi, o semplicemente rimanere a letto e non parlare
con nessuno. Ovviamente questo non era possibile ma avevo tirato per le
lunghe
più che potevo. L'ingresso in refettorio mi fece scoprire
improvvisamente che cos'era quello che non andava. Infondo alla sala,
seduta tra le sue colleghe, Elena si era girata verso di me non appena
avevo varcato la soglia del refettorio. Quello sguardo da lontano mi
aveva chiarito che avevo una paura folle di incontrarla. Avrei voluto
nascondermi sotto una montagna, avevo sicuramente le gote rosse come un
pomodoro maturo e il respiro non mi bastava per il fabbisogno di
ossigeno.
Ero in una crisi di panico totale ma non avevo idea del
perché.
Mi sedetti al tavolo più lontano da lei e nell'angolo
più nascosto. Consumai la mia colazione in un tempo record e
uscii dal refettorio prima che lei potesse alzarsi e avvicinarsi a me.
Avevo una paura folle di incontrarla. Avevo vergogna ma non sapevo
assolutamente perché. Era così e basta. Rimasi
nascosto nel parco finché non uscirono tutti per
le passeggiate. Mi ero concesso solo una rapida e furtiva occhiata al
cortile pieno di
bambini poco prima della partenza delle squadre. Mi ero nascosto dietro
la finestra del corridoio al primo piano e avevo visto Elena che si
guardava intorno. Mi stava cercando e questo mi fece tornare di corsa
nel boschetto di noccioli infondo al parco, addossato al muro di cinta
della colonia.
Passai la mattinata bighellonando nella struttura silenziosa. Passai un
po' del mio tempo
nelle cucine dove le inservienti stavano già pensando al
pranzo. C'era un caldo umido nei grandi stanzoni e uno scintillare di
acciaio. Le donne si muovevano avvolte nei loro camici bianchi e le
cuffie candide che raccoglievano i capelli. Sembravano tutte uguali e
mi
sorridevano senza brontolare. Era vietatissimo
entrare in cucina ma quello era un altro dei piccoli privilegi che mi
erano riservati. Non toccavo nulla ed ero sempre gentile con le
inservienti. A volte mi regalavano una mela ma quello che mi piaceva
era guardare il loro lavoro. Ero affascinato dalla loro
organizzazione e dalle enormi pentole. Potevano tranquillamente
contenere un bambino e mi ricordavano le barzellette dei selvaggi che
bollivano i turisti nell'Africa nera. Una di loro tagliava la verdura
con una rapidità incredibile e quasi senza guardare la lama
e il grande tagliere di legno. Sembrava divertita dal mio stupore.
Uscii poi dalle cucine assaporando l'aria fresca di settembre e i
profumi che arrivavano dal parco.
La Signora Bianca mi trovò intento ad osservare l'ordinato
andirivieni delle formiche che cercavano di
trasportare una vespa morta e si affannavano intorno all'insetto. Mi
chiese stupita se mi sentissi bene perché sapeva quanto mi
piaceva andare in passeggiata con le squadre. Non aspettò
una mia risposta e riprese le sue attività rientrando nel
suo ufficio. Decise probabilmente che non avrei dovuto sprecare una
giornata ad osservare le formiche. Poco dopo, infatti, venne a cercarmi
la
Signora Dora, l'economo della Colonia. Mi
chiese se volessi accompagnarla a Borgo per delle commissioni.
Saremmo stati fuori a mangiare ed io l'avrei aiutata a trasportare
quello che avrebbe acquistato. Accettai entusiasta. Anche la Signora
Dora era gentile con me e ogni tanto mi regalava piccole barrette di
cioccolato. In più si stava avvicinando il momento
del ritorno
delle squadre dalle passeggiate. Non sarei riuscito ad evitare
di trovarmi faccia a faccia con Elena a pranzo. Mi piaceva poi sedermi
sul sedile davanti della macchina che era
utilizzata per la colonia. Era una vecchia millecento azzurrina con il
cambio sul volante e i sedili in similpelle neri. Normalmente non mi
era concesso di sedere sul sedile anteriore: era
prerogativa dei
grandi. Ma quando partivo in missione con la Dora era quello il mio
posto.
Tornai da Borgo che era pomeriggio e i bambini erano tutti a giocare
nel parco. Rimasi con il personale che lavorava nella Colonia evitando
accuratamente di farmi vedere da chicchessia. Continuavo a non capire
di che cosa avessi vergogna, che cosa mi facesse scappare da Elena.
Aiutai chiunque avesse bisogno anche solo di spostare una borsa e i
compiti ad un certo punto mi assorbirono così tanto che
uscendo dagli uffici della Signora Bianca non mi accorsi che qualche
squadra era stata raggruppata e portata nel cortile. Tra queste c'era
la squadra di Elena e di colpo, girandomi, mi ritrovai davanti a lei
senza poter scappare, senza nessuna via d'uscita.
- Ciao - mi disse con uno sguardo indagatore.
- Ciao - le dissi guardandola probabilmente con lo sguardo
più idiota della storia.
Guardai in tutte le direzioni cercando una qualsiasi possibile
diversione da quella situazione imbarazzante. Pensavo che sarei morto
di vergogna e capii solo allora che mi vergognavo per il bacio
che ci eravamo dati la sera precedente. Nello stesso tempo
però mi rendevo
conto che vederla stava stemperando
la paura.
Elena mi guardava sempre con lo sguardo fisso.
- Non mi dici nulla ? - Le chiesi perseverando nella ricerca
dell'idiozia pura.
- Veramente sei tu che sei poco loquace - Lo disse quasi divertita. Non
era arrabbiata ma continuava a guardarmi senza lasciarmi scampo. Non
sapevo cosa dire. Non sapevo cosa fare. Ma la vergogna che provavo si
stava attenuando. Forse le sorrisi o forse la mia faccia da idiota le
fece capire che semplicemente ero in confusione totale. Mi sorrise e
allungò la mano toccandomi leggermente la guancia. Quel
gesto fu una medicina straordinaria perché di colpo tutta la
mia paura si dissolse. Anzi, d'improvviso mi resi conto che tutta una
giornata era stata persa. Un giorno intero che avrei potuto passare con
lei e che invece era stato speso a nascondermi. Quasi non ricordavo che
cosa mi aveva fatto scappare.
E poi Elena era incredibilmente bella e mi sorrideva.
- Vieni da me stasera ? - gli occhi si erano come fermati. Era come se
l'incertezza della mia risposta richiedesse un'attesa immobile per non
perdere le sfumature, i dettagli.
La guardai. Come poteva dubitare della risposta. Come poteva pensare
che non avessi dentro di me che un solo desiderio: stringerla tra le
mie braccia e baciarla.
- Certo - Le dissi. Il suo sorriso rimase ancora qualche attimo sospeso
per poi mescolarsi con i suoi occhi scuri e diventare una sola
sensazione di leggerezza che mi riempiva e mi faceva sentire come se
fossi vento: capace di spiccare il volo da un momento all'altro.