La sera successiva lasciai la camerata di Elena come ultima del mio giro. Avevo aiutato Maddalena a mettere a letto i bambini e la maggior parte delle stanze era già silenziosa e buia.
Elena mi aveva accolto con un sorriso che le aveva illuminato il viso. Non ci eravamo visti durante la giornata; ero stato con la squadra di Maddalena e avevamo fatto la passeggiata lunga fino al paese dove vivevano i suoi genitori. A quel tempo camminare lungo il ciglio di una strada con un gruppo di bambini in fila indiana era pericoloso come restare a casa propria ai giorni nostri. Poche le macchine, pochi i guidatori che dovevano dimostrare di essere uomini forti e invincibili. Ricordo che una volta feci l'autostop per non fare a piedi i cinque chilometri che mi separavano dalla casa dei genitori di Maddalena e un uomo mi raccolse quasi subito perché mi aveva visto nei giorni precedenti. Era passato con la sua auto talmente piano che aveva avuto il tempo di fissare i visi nella sua memoria.
Anche i bambini di Elena dormivano e lei era seduta sul suo letto con il libro abbandonato di fianco ad uno dei cuscini. Mi fece segno di sedermi sul letto.
- Sei stato fuori tutto il giorno ? Non ti ho proprio visto oggi - mi disse sempre sorridendo.
Era incredibile come riuscisse a sorridere  praticamente sempre. Mi chiesi se sorridesse anche dormendo.
- Sono stato a Gorreno con la Maddi; mi ha chiesto di accompagnarla perchè la passeggiata è lunga - gli risposi.
- Conoscevi Maddalena prima di venire qui ? - Aveva l'aria di chi chiede qualcosa ma non è troppo interessato dalla risposta.
- No, sono in camerata con lei - dissi - e allora è la prima persona che ho conosciuto.
- Quindi se volessi fare una passeggiata lunga potrei chiederti di venire con me ? - Aveva stretto gli occhi mentre mi poneva la domanda.
- Certo - Risposi con orgoglio.
- Domani allora sei con me -
Il sorriso di Elena sembrava più luminoso della lampada accesa sul comodino e i suoi occhi brillavano. Rimasi senza parole, stavo solo a guardarla e sentivo dentro di me una strana inquietudine. Volevo scappare via per sottrarmi a quegli occhi che sembravano pungere ogni centimetro della mia pelle e dall'altra parte mi vennero in mente le labbra di Susanna appiccicate alle mie con la sua mano dietro la mia testa.
Probabilmente arrossii o avevo scritto in faccia il turbamento. Elena si avvicino e mi toccò il naso come fosse l'interruttore per riavviare il corretto flusso delle emozioni.
- Ehi - disse - ti ho chiesto solo di accompagnarmi, non di sposarmi - e rise di gusto.













La settimana successiva saremmo andati al Santuario. Era il clou di ogni turno: ci si arrampicava per un sentiero di fianco alla montagna passando tra boschi di castagni. In due ore si arrivava in alto e l'ultimo tratto aveva dei tornanti stretti, scavati nella roccia. Era pericoloso perché il gomito del tornante era direttamente a strapiombo ed era protetto solo da una palizzata fatta con grossi rami secchi. Se qualcuno fosse scivolato nei pressi sarebbe finito nel burrone. Arrivare in alto era comunque entusiasmante. Per la strada asfaltata ci portavano il pranzo al sacco e passavamo molte ore sulla cima conquistata a rincorrerci e giocare.
Conoscevo il sentiero molto bene ed ero la guida per tutti quanti. Arrivavo in alto per primo e mi fermavo presso il punto più pericoloso. Controllavo che bambini e adulti non avessero problemi incassando la riconoscenza delle assistenti e l'ammirazione di tutti i piccoli ospiti della Colonia. Le bambine più grandi facevano a gara per avermi vicino durante i pasti in refettorio e i maschi erano fieri quando giocavo con loro. Ogni tanto mi veniva in mente quando prendevo a botte i miei compagni di squadra, mi veniva in mente Alessandra. Chissà come sarebbe stata fiera di me se avesse potuto vedermi. Mi mancava molto Alessandra, mi mancavano molto Susanna e Rita.
Conoscevo tutti i posti dove fare le passeggiate: quelle brevi che portavano a grandi spazi dove i bambini potevano scorrazzare in assoluta sicurezza; quelle lunghe che davano poco tempo per giocare ma che attraversavano campagne piene di alberi da frutto, boschetti di alberi di nocciole e prati ampi. Arrivavamo al Lago fino ad una stretta spiaggia e i bambini si toglievano scarpe e calze per immergere i piedi nell'acqua gelida. A volte invece facevamo solo pochi passi per arrivare al campo di calcio dove sfidavamo i ragazzi del paese in partite epiche e puntualmente ne uscivamo con le ossa rotte e punteggi che avrebbero tolto velleità a chiunque.
Nel turno di agosto al campo di calcio ci accompagnava Daniela. Originaria di un paese che stava dall'altra parte del lago, era alta e aveva il classico atteggiamento del "maschiaccio" come si diceva allora. Sempre in pantaloni, sempre in movimento, non un filo di trucco, non un braccialetto. Ci spronava a dare il massimo per riuscire a battere la squadretta locale. Era agguerrita: tutte le volte che uscivamo dal campo con decine di gol al passivo si arrabbiava come se avesse perso la finale della coppa dei campioni. Sembrava quasi avesse un conto aperto con i ragazzi del paese.
Un pomeriggio fummo baciati dalla dea bendata.
Loro erano stranamente molli e poco reattivi, noi eravamo ordinati ed efficaci. Io ero in porta e il segnale divino arrivò con una staffilata da venti metri che incredibilmente misi sopra la traversa con un colpo di reni portentoso. Mi sentivo immenso come Yashin e l'entusiasmo che il mio intervento aveva suscitato mi fece pensare di valere molto di più del mitico portiere russo. Daniela mi guardava entusiasta e gridava come una pazza perché aveva capito che quello era il giorno della riscossa.
Erano passati dieci minuti dall'inizio della partita e non avevamo ancora preso gol: un miracolo, un altro segno che quel giorno sarebbe rimasto iscritto negli annali del calcio e la cronaca degli eventi sarebbe stata trasmessa ai posteri come una leggenda viaggiando per i continenti di bocca in bocca.
Quando il nostro attaccante segnò il primo gol di vantaggio fu l'apoteosi. Fino a quel momento eravamo riusciti a segnare solo per stanchezza degli avversari che, forse per umana pietà, ci lasciavano corridoi aperti affinché potessimo divertirci un po' anche noi. Ma era sempre il gol che dava un senso al fatto che in campo c'erano due squadre: si parlava sempre di risultati del tipo ventidue a tre o diciassette a uno. Continuavamo a giocare bene e loro non reagivano. Tutte le volte che riuscivano ad arrivare vicini alla porta c'era sempre un difensore che impediva il tiro o che contribuiva all'errore e la palla finiva fuori.
Poi un rilancio mise uno dei nostri solo davanti alla porta. Ci fu una frazione di secondo in cui il tempo rimase sospeso: tutti i cuori si fermarono e i respiri si bloccarono. Il nostro compagno con la freddezza di Gigi Riva guardò il portiere e mise la palla in rete a fil di palo. L'esplosione di gioia fu pari solo a quella provata al gol di Rivera nella mitica partita con la Germania che avevamo visto a giugno in televisione. Daniela era impazzita e corse ad abbracciare tutti quanti. I ragazzi del paese erano sconsolati e increduli, perdevano due a zero contro una manica di bambinetti incapaci di soffiarsi il naso.
Riuscimmo a chiudere il primo tempo con quel risultato che non avremmo mai pensato possibile e Daniela aveva gli occhi come piccole fiammelle accese. Ci dava scosse di corrente ogni volta che metteva le sue mani sulle nostre spalle dicendoci che dovevamo stringere i denti ed arrivare fino alla fine. Eravamo increduli e coscienti di essere ad un passo dalla gloria.
Dopo pochi minuti del secondo tempo ci rendemmo conto che loro avevano serrato i ranghi ed erano tornati a giocare come sapevano fare, come avevano fatto sempre seppellendoci di gol. Infatti, con una facilità disarmante, il loro esterno stese due dei nostri e mi infilò il pallone in rete dove non avrei mai potuto arrivare neanche se fossi stato Tiramolla. Quel gol poteva metterci in una condizione psicologica negativa; saremmo riusciti a prenderne altri dieci nel giro di pochi minuti. Daniela si era zittita e invece di continuare a sostenerci era esausta ai bordi del campo probabilmente in attesa della disfatta.
E i cattivi presagi si materializzarono presto: un loro attaccante entrò come una furia sul nostro difensore che rimase a terra dolorante. Non aveva subito troppi danni ma era esausto e aveva probabilmente colto l'occasione per defilarsi dalla partita e riposarsi. Fu portato a bordo campo e la punizione fu calciata indietro, verso di me, per il rilancio lungo alla ricerca di un errore degli avversari. Presi la palla e la feci rimbalzare come ogni portiere che si rispetti. Feci due passi e calciai il pallone che incredibilmente invece di arrivare lungo nella metà campo avversaria, finì direttamente sui piedi dell'attaccante che aveva steso il nostro difensore. Stazionava davanti alla mia porta e non si aspettava quel regalo. Gli spettatori ammutolirono. Daniela probabilmente ebbe la visione di una pioggia di palloni in rete che confermava le sue premonizioni.
L'attaccante non perse tempo a ringraziare e tirò una staffilata a mezza altezza. Mi tuffai di lato con gli occhi chiusi e pensai che se esisteva un dio era indispensabile che fosse nei paraggi perché se quella palla entrava in rete Daniela mi avrebbe spellato vivo.
Sentii il pallone che impattava le mie mani e mentre cadevo a terra con una sensazione di lentezza e con gli occhi sempre chiusi sentii le urla che arrivavano dal bordo del campo.
La palla era in calcio d'angolo. Avevo rimediato al mio errore con un miracolo. Dio esisteva.
La partita finì comunque con un pareggio due a due ma per noi era un risultato incredibile. Ad un certo punto anche Daniela capì che non avremmo potuto chiedere di più e al gol del pareggio non fece drammi. Anche gli avversari avevano capito che le cose non potevano andare diversamente e che la gloria doveva essere per forza nostra. Non si impegnarono molto e al nostro calo fisiologico verso la fine del secondo tempo risposero con un'azione perfetta che mise un loro uomo davanti alla porta vuota. Poi non spinsero, ci accordarono gli onori delle armi e quel pareggio sarebbe stato raccontato ai nostri amici, ai nostri genitori oltre che a noi stessi per tutti i giorni che mancavano alla fine del turno.
Daniela mi venne vicino e mi abbracciò e mi disse che ero stato perfetto.
Non riuscimmo più a ripetere l'impresa e ritornammo a risultati spaventosi. Ma Daniela si era come acquietata, come se avesse avuto sufficienti risposte alla sua ansia.
Quando qualche anno fa sono tornato in quei luoghi non ho più trovato quel campo di calcio: c'erano costruzioni basse e serre invece delle porte con le reti vere che mi avevano stupito. Ma la sensazione di quel pomeriggio aleggiava ancora nell'aria e mi sembrava di sentire le grida di Daniela. Era davvero come se ci fosse stata una targa immaginaria a ricordo dell'impresa, inchiodata nella memoria come fosse uno stadio Azteca della nostra immaginazione.