Quando
arrivò l’orario giusto
chiamò l’ufficio e farfugliò di
un’emergenza
che richiedeva la sua attenzione.
Non era più riuscito a leggere il giornale.
Era arrivata la prostrazione, il senso di debolezza e di inadeguatezza
che lo facevano sentire come in balia di una corrente impetuosa.
Non aveva voglia di fare nulla.
Non voleva tornare a casa sua. Non voleva nemmeno rimanere
lì ma
contemporaneamente non aveva voglia di muoversi.
Voleva scomparire, dissolversi. Invece aveva in casa una terrorista con
un Kalashnikov che forse aveva ucciso un vigilante.
E quella era la donna che abitava i sogni.
Lui impazziva quando lei gli concedeva tempo e poi moriva di dolore
quando arrivava il momento di partire.
Rimase un paio d’ore prigioniero di quella morte cerebrale e
poi
alla fine, senza pensarci troppo, si alzò e si diresse verso
casa.
Entrò chiudendo dietro di se la porta e fatto un passo si
ritrovò davanti un uomo basso, tarchiato, capelli neri,
ricci e
grossi baffi.
Aveva in mano una pistola e lo guardava fisso negli occhi.
Dietro di lui la voce di Emanuela che con un tono inusuale stava
dicendo:
– E’ lui, non preoccuparti. –
Era paralizzato.
L’uomo rimase ancora qualche istante con la pistola alzata e
poi
indietreggiò come in un film americano.
- Vai a sederti sul divano – gli ordinò con una
voce piena
e autoritaria.
Lui obbedì.
Entrando nella stanza vide Emanuela seduta sulla sedia e dietro di lei
un altro uomo, giovane, sembrava un ragazzino, un liceale, uno di
quelli che ti aspetti fuori da una scuola.
Aveva anche lui una pistola in mano e lui ebbe precisa la sensazione
che qualche secondo prima fosse puntata su Emanuela.
In terra c’erano fogli di giornale e poi cocci che solo dopo
un
momento lui riconobbe essere la lampada che stava sulla mensola.
Il suo arrivo aveva interrotto una questione molto seria che richiedeva
cocci e armi e che portava in sé una certezza: qualcuno non
ne
sarebbe uscito vivo.
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